Capitolo 1
Quello crocifisso a sinistra si chiama Tito, e solo Dio lo sa. Quello sulla destra si chiama Dumaco, e tutti lo conoscono. Al centro, esangue e mestruo, ce n'è un Altro. Eppure nessuno si ricorda del suo nome.
Fine
Dedicato a Marta Orlando, scrupolosa chirichetta dell'Appia Altra
venerdì 13 marzo 2009
lunedì 23 febbraio 2009
Il mio Unico Amico
Bevo un caffè, accendo una sigaretta ed esco. La notte affonda. A quest’ora Caserta è frigida, spettrale.
Solo quando vago così, senza meta, in solitudine, tollero la monotonia dei suoi palazzi. Cemento armato, livido, cemento indifeso, sanguigno. Cemento come placenta per una città orfana di storia.
Dovrei lasciare sui muri che rasento lunghe strisce di vernice nera, piccoli graffiti di fuoco tra i mattoni.
Niente lettere, né parole.
Dovrei seppellire fogli e penne blu. Tutti i miei moleskine sotto terra, innaffiarli poi con la mia stessa urina e non aspettarmi nulla di meglio dalla vita.
Nel frattempo, cammino a testa bassa in via Roma.
Tremo al freddo che massaggia la pelle. Osservo le insegne spente delle rosticcerie e le saracinesche chiude dei bar. Via Roma è un cordone ombelicale rescisso dalla Grande Madre Reggia. Se non fosse la parallela di Corso Trieste, che sbuca proprio di fronte al Palazzo Reale, questa strada non avrebbe senso. Una strada siamese, quasi ripudiata.
Ed è qui che la notte io cerco la scintilla.
Sono fermo, da settimane, da mesi, schiavo del foglio bianco, e quando provo ad iniziare il mio primo romanzo la penna mi scivola dalla mano, rotea sul tavolo e poi cade sul tappeto.
Ci provo e fallisco, ci ritento e me ne pento. E’ tutto inutile: non ho nulla da narrare.
Chi legge i miei racconti dice: troppo frivolo, poco limpido, assai scurrile, tremendamente egocentrico.
Cammino in via Roma da solo perché adoro il Palazzo dell’ex Ina, quello progettato da Davide Pankowski.
Al confronto, la Camera di Commercio e l’Istituto dei Salesiani sono delle catapecchie di stucchi rosè.
La simmetria regia delle loro facciate è fuori luogo in questa città di mattoncini rossi.
Il palazzo dell’ex Ina è un vagone piombato che corre a centoventi miglia orarie verso il passo di Dukla, nei Carpazi.
E allora giro per via Daniele, e salgo su per via Renella, senza neppure guardare Villa Vitrone (il Liberty rende eunuchi).
Amo solo l’ex Ina perché assomiglia ad una catasta di libri. Io leggo Marilena Lucente, Massimiliano Palmese, Agota Krystof. Ma non sopporto Francesco Piccolo o Antonio Pascale.
Se non leggo, io scrivo. Mai una riga su di me, su chi sono e cosa penso. Scrivo dei pennacchi di fumo che escono dagli Altiforni della Cementir, e della nube di Polveri Sottili che inghiotte la Montagna di San Michele, divorata dal Drago Edile.
Narro degli amori molesti di pantegane che si incontrano qui, davanti a questo cumulo di immondizia ricoperta dalla calce per evitare che il fetore disturbi le nari degli ignavi passanti.
Racconto di stormi di vampiri che migrano dalla Transilvania alla Saint Gobain, dove si riposano prima di sferrare l’attacco finale, in attesa che spunti la luna piena.
Scrivo solo di questa città. E di chi la vive. I Casertani li osservo spesso. Parlano al cellulare e inciampano. Sgommano ai semafori e bestemmiano. Si fanno il segno della croce e fumano. Sculacciano i bambini e succhiano. Sempre al telefono cellulare, iperattivi, sensibili ai campi magnetici.
Sarà un caso, ma da quando scrivo di lei, di Caserta, e di loro, dei casertani, ho ridotto la mia vita sociale al minimo.
Mi riservo solo delle passeggiate notturne, da via Roma in via Renella, salendo su, oltre piazza Sant’Anna, fino alla Stazione, dove mi aspetta il mio Unico Amico.
Sul muretto che sbuca da via Verdi, un clochard polacco sventra e lecca un cartone di Tavernello. Poco più in là, sotto una pensilina arrugginita, due tassisti giocano a scala quaranta in attesa di un cliente, magari un turista, che non arriva e non arriverà mai.
Si avvicina loro Giuseppe Coca-Cola, eroinomane di lungo corso, che chiede una sigaretta. Lo guardo avvilito, ormai è quattro ossa più due etti di carne e mezzo litro di sangue. Un colpo di clacson lo spezzerebbe in due. Tre enormi buchi di siringa sul collo sono ricoperti di pustole e scaglie di carne cianotica.
Giuseppe vaga senza meta in questa città senza storie e come lui, anche Eva Hop e Caterina. Si trascinano da quelle parti con la busta della spesa al braccio, in cerca di maschi da svuotare per dieci euro. Un tempo erano bellissime, ora sono grasse e rugose e camminano sempre insieme, quasi fianco a fianco, per paura di essere pestate a sangue dal solito violento. Geremia è un violento. Fa il parcheggiatore, anche di notte, quando nello spiazzale della stazione non ci sono auto se non quelle bianche dei tassinari.
Ai suoi pochi clienti chiede sempre tre euro, e se qualcuno si lamenta scompaiono i cerchioni, si graffiano le scocche, si spezzano i tergicristalli.
Quando è ubriaco, si diverte a picchiare Eva. Un tempo erano amanti, ma poi l’alcol, le marchette, i denti cariati, i Tribunali dei minori, le carezze che diventano percosse, il cappio invisibile che questa città di mette al collo se cerchi aiuto. Geremia è il padre di tutti i lividi sulla schiena di Eva. E quando lei passa, lui la chiama puttana, sghignazzando.
Ma la vera puttana di Piazza Ferrovia, è Marco. Chissà perché è qui: sempre ben vestito, occhiali puliti, pantaloni stirati, maglioncini lindi.
Si dice che studi al Liceo Giannone e che sia bravo soprattutto in greco. Leggende, forse.
Di sicuro, Marco ti combina di tutto, nel bagno della stazione, per pochi spicci, alle volte anche gratis. Lo fa con passione, con rabbia. E’ bravissimo. L’amante perfetto: educato, gioviale, pulito. Anche se la barba folta con venature di rame e i capelli ricci perennemente arruffati lo rendono inquietante. Eppure, nonostante le sue doti, non ha molta fortuna tra gli erotomani notturni in cerca di sesso alla Stazione di Caserta. Forse usa la tecnica sbagliata.
Marco segue le persone che vanno verso il bagno dei maschi, con discrezione, a cinque metri di distanza. Poi, quando il viandante entra nella toilet, lui si piazza nell’altra cabina a fianco. Sale sul water e si affaccia per guardare l’uomo pisciare.
Capita che incontri l’omofobo che urla stizzito, il mazzonaro che ancora con la patta aperta gli molla un pugno in faccia, o il padre di famiglia impomatato che non fa resistenza, e che mentre eiacula, s’innamora del mio Unico Amico.
Solo quando vago così, senza meta, in solitudine, tollero la monotonia dei suoi palazzi. Cemento armato, livido, cemento indifeso, sanguigno. Cemento come placenta per una città orfana di storia.
Dovrei lasciare sui muri che rasento lunghe strisce di vernice nera, piccoli graffiti di fuoco tra i mattoni.
Niente lettere, né parole.
Dovrei seppellire fogli e penne blu. Tutti i miei moleskine sotto terra, innaffiarli poi con la mia stessa urina e non aspettarmi nulla di meglio dalla vita.
Nel frattempo, cammino a testa bassa in via Roma.
Tremo al freddo che massaggia la pelle. Osservo le insegne spente delle rosticcerie e le saracinesche chiude dei bar. Via Roma è un cordone ombelicale rescisso dalla Grande Madre Reggia. Se non fosse la parallela di Corso Trieste, che sbuca proprio di fronte al Palazzo Reale, questa strada non avrebbe senso. Una strada siamese, quasi ripudiata.
Ed è qui che la notte io cerco la scintilla.
Sono fermo, da settimane, da mesi, schiavo del foglio bianco, e quando provo ad iniziare il mio primo romanzo la penna mi scivola dalla mano, rotea sul tavolo e poi cade sul tappeto.
Ci provo e fallisco, ci ritento e me ne pento. E’ tutto inutile: non ho nulla da narrare.
Chi legge i miei racconti dice: troppo frivolo, poco limpido, assai scurrile, tremendamente egocentrico.
Cammino in via Roma da solo perché adoro il Palazzo dell’ex Ina, quello progettato da Davide Pankowski.
Al confronto, la Camera di Commercio e l’Istituto dei Salesiani sono delle catapecchie di stucchi rosè.
La simmetria regia delle loro facciate è fuori luogo in questa città di mattoncini rossi.
Il palazzo dell’ex Ina è un vagone piombato che corre a centoventi miglia orarie verso il passo di Dukla, nei Carpazi.
E allora giro per via Daniele, e salgo su per via Renella, senza neppure guardare Villa Vitrone (il Liberty rende eunuchi).
Amo solo l’ex Ina perché assomiglia ad una catasta di libri. Io leggo Marilena Lucente, Massimiliano Palmese, Agota Krystof. Ma non sopporto Francesco Piccolo o Antonio Pascale.
Se non leggo, io scrivo. Mai una riga su di me, su chi sono e cosa penso. Scrivo dei pennacchi di fumo che escono dagli Altiforni della Cementir, e della nube di Polveri Sottili che inghiotte la Montagna di San Michele, divorata dal Drago Edile.
Narro degli amori molesti di pantegane che si incontrano qui, davanti a questo cumulo di immondizia ricoperta dalla calce per evitare che il fetore disturbi le nari degli ignavi passanti.
Racconto di stormi di vampiri che migrano dalla Transilvania alla Saint Gobain, dove si riposano prima di sferrare l’attacco finale, in attesa che spunti la luna piena.
Scrivo solo di questa città. E di chi la vive. I Casertani li osservo spesso. Parlano al cellulare e inciampano. Sgommano ai semafori e bestemmiano. Si fanno il segno della croce e fumano. Sculacciano i bambini e succhiano. Sempre al telefono cellulare, iperattivi, sensibili ai campi magnetici.
Sarà un caso, ma da quando scrivo di lei, di Caserta, e di loro, dei casertani, ho ridotto la mia vita sociale al minimo.
Mi riservo solo delle passeggiate notturne, da via Roma in via Renella, salendo su, oltre piazza Sant’Anna, fino alla Stazione, dove mi aspetta il mio Unico Amico.
Sul muretto che sbuca da via Verdi, un clochard polacco sventra e lecca un cartone di Tavernello. Poco più in là, sotto una pensilina arrugginita, due tassisti giocano a scala quaranta in attesa di un cliente, magari un turista, che non arriva e non arriverà mai.
Si avvicina loro Giuseppe Coca-Cola, eroinomane di lungo corso, che chiede una sigaretta. Lo guardo avvilito, ormai è quattro ossa più due etti di carne e mezzo litro di sangue. Un colpo di clacson lo spezzerebbe in due. Tre enormi buchi di siringa sul collo sono ricoperti di pustole e scaglie di carne cianotica.
Giuseppe vaga senza meta in questa città senza storie e come lui, anche Eva Hop e Caterina. Si trascinano da quelle parti con la busta della spesa al braccio, in cerca di maschi da svuotare per dieci euro. Un tempo erano bellissime, ora sono grasse e rugose e camminano sempre insieme, quasi fianco a fianco, per paura di essere pestate a sangue dal solito violento. Geremia è un violento. Fa il parcheggiatore, anche di notte, quando nello spiazzale della stazione non ci sono auto se non quelle bianche dei tassinari.
Ai suoi pochi clienti chiede sempre tre euro, e se qualcuno si lamenta scompaiono i cerchioni, si graffiano le scocche, si spezzano i tergicristalli.
Quando è ubriaco, si diverte a picchiare Eva. Un tempo erano amanti, ma poi l’alcol, le marchette, i denti cariati, i Tribunali dei minori, le carezze che diventano percosse, il cappio invisibile che questa città di mette al collo se cerchi aiuto. Geremia è il padre di tutti i lividi sulla schiena di Eva. E quando lei passa, lui la chiama puttana, sghignazzando.
Ma la vera puttana di Piazza Ferrovia, è Marco. Chissà perché è qui: sempre ben vestito, occhiali puliti, pantaloni stirati, maglioncini lindi.
Si dice che studi al Liceo Giannone e che sia bravo soprattutto in greco. Leggende, forse.
Di sicuro, Marco ti combina di tutto, nel bagno della stazione, per pochi spicci, alle volte anche gratis. Lo fa con passione, con rabbia. E’ bravissimo. L’amante perfetto: educato, gioviale, pulito. Anche se la barba folta con venature di rame e i capelli ricci perennemente arruffati lo rendono inquietante. Eppure, nonostante le sue doti, non ha molta fortuna tra gli erotomani notturni in cerca di sesso alla Stazione di Caserta. Forse usa la tecnica sbagliata.
Marco segue le persone che vanno verso il bagno dei maschi, con discrezione, a cinque metri di distanza. Poi, quando il viandante entra nella toilet, lui si piazza nell’altra cabina a fianco. Sale sul water e si affaccia per guardare l’uomo pisciare.
Capita che incontri l’omofobo che urla stizzito, il mazzonaro che ancora con la patta aperta gli molla un pugno in faccia, o il padre di famiglia impomatato che non fa resistenza, e che mentre eiacula, s’innamora del mio Unico Amico.
sabato 31 gennaio 2009
No Tav, No Acerra
Dovrebbero venderle negli ipermercati della Coop. Tra la grappa Nardini e le mele fuji, con tanto di stoppino e fiammiferi. Pronte per l’uso, senza etichette tipo: “Attenzione, liquido infiammabile”, perché per bruciarne cento di questi cani di Tonfa con i caschi blu e gli scudi di plexiglas, ce ne vorrebbero a decine. Forse migliaia. “CARAMBA”, ripeto tra me e me, “CARAMBA, vi muovete solo in branco, come dei randagi del salario”. E allora aspiro rapida l’ultima boccata. Poi getto di scatto la sigaretta a terra e la schiaccio col piede. Come schiaccerei loro e le loro anime: che brucino pure all’inceneritore Fibe di Acerra. “Altro che Torino-Lione, altro che Rocksoil! Tutti carbonizzati dovete morire”, farfuglio. Mentre il fumo espira nevrotico dalle mie labbra, accendo la miccia e lancio la bottiglia. La fiamma che divora la stoffa volteggia nell’aria, segue una curva e lascia una scia nerastra nel cielo grigio della Val di Susa. Ho ventisette anni, guadagno seicento euro al mese e non ho voglia di guardare la Gelmini su Youtube. Cinque secondi al massimo, inseguiti dalle urla dei Caramba che anticipano di pochi attimi il fragore dello schianto. Rumore di vetri rotti in un silenzio che domina ogni cristallo di neve. Vedo la vampata, sorrido, accendo un altro stoppino e grido: “NO ALLA TAV”.
Quello sono io, non ho niente da perdere, SONO un uomo in rivolta.
Mentre piego il braccio per scaraventare il mio secondo omaggio incendiario, m’accorgo che una vecchia con il volto fasciato in un foulard nero corre verso il muro sub-umano dei mercenari in divisa. Tiene uno strano crocefisso di legno nella mano sinistra e la corona di un Rosario nella destra. Ho come l’impressione che al posto della testa del Cristo in miniatura, ci sia una sorta di pulsante di plastica rossa. La vecchia ulula arcane malie alle nuvole in un dialetto sconosciuto. E allora mi paralizzo, anche se i caramba avanzano.
“Levati nonna”, urlo.
“Via, Via”, comandano i giannizzeri della Repubblica.
La donna sembra in tranche, vaneggia, piange, volteggia. Si blocca di colpo, con le spalle rivolte verso le Scorze dell’Ordine e strilla: “Fermi, fermi tutti”. Ma avverto solo il rumore degli anfibi che affondano nella neve e le grida degli altri manifestanti che scappano come uno stormo di quaglie allo sparo di un bracconiere. “Fermi, vengo in nome di Papa Joseph…”.
Continuo a non comprendere le sue suppliche, soprattutto ora che i Caramba sbraitano come Celti ai comandi di Vercingetorige .
“Lui, il successore di Pietro mi manda qui per dirvi che non si farà, che la Tav non…”. La sua voce stridula è travolta da un tuono e poi un fulmine e la pioggia scrosciante cade dal cielo senza preavviso. La miccia della molotov si spegne, quasi miagolando. Ormai è inutile, è tutto inutile. Ed allora inizio a scappare anch’io. Mi volto subito, d’istinto, per assicurarmi che la vecchia sia ancora lì. Potrebbe finire come una cacca di cane sotto gli anfibi dei Madama che marciano indemoniati verso di me. Mentre si condensano spirali di fiato ad ogni respiro, la vedo. Con una mano si strofina l’occhio inumidito dalle lacrime e con l’altra spinge il pulsante al posto della testa del Cristo. BOOOOOM. Le mie pupille quasi bruciano al contatto con quel groviglio di fiamme che si sprigiona repentino. Un muro d’aria mi scaraventa in avanti. Il sangue, il gelo, un conato di vomito. Il buio. E io che penso prima di svenire: “Ecoballe infarcite di sbirri, ecco cosa ci vuole in Italia. Altro che Tav”.
Quello sono io, non ho niente da perdere, SONO un uomo in rivolta.
Mentre piego il braccio per scaraventare il mio secondo omaggio incendiario, m’accorgo che una vecchia con il volto fasciato in un foulard nero corre verso il muro sub-umano dei mercenari in divisa. Tiene uno strano crocefisso di legno nella mano sinistra e la corona di un Rosario nella destra. Ho come l’impressione che al posto della testa del Cristo in miniatura, ci sia una sorta di pulsante di plastica rossa. La vecchia ulula arcane malie alle nuvole in un dialetto sconosciuto. E allora mi paralizzo, anche se i caramba avanzano.
“Levati nonna”, urlo.
“Via, Via”, comandano i giannizzeri della Repubblica.
La donna sembra in tranche, vaneggia, piange, volteggia. Si blocca di colpo, con le spalle rivolte verso le Scorze dell’Ordine e strilla: “Fermi, fermi tutti”. Ma avverto solo il rumore degli anfibi che affondano nella neve e le grida degli altri manifestanti che scappano come uno stormo di quaglie allo sparo di un bracconiere. “Fermi, vengo in nome di Papa Joseph…”.
Continuo a non comprendere le sue suppliche, soprattutto ora che i Caramba sbraitano come Celti ai comandi di Vercingetorige .
“Lui, il successore di Pietro mi manda qui per dirvi che non si farà, che la Tav non…”. La sua voce stridula è travolta da un tuono e poi un fulmine e la pioggia scrosciante cade dal cielo senza preavviso. La miccia della molotov si spegne, quasi miagolando. Ormai è inutile, è tutto inutile. Ed allora inizio a scappare anch’io. Mi volto subito, d’istinto, per assicurarmi che la vecchia sia ancora lì. Potrebbe finire come una cacca di cane sotto gli anfibi dei Madama che marciano indemoniati verso di me. Mentre si condensano spirali di fiato ad ogni respiro, la vedo. Con una mano si strofina l’occhio inumidito dalle lacrime e con l’altra spinge il pulsante al posto della testa del Cristo. BOOOOOM. Le mie pupille quasi bruciano al contatto con quel groviglio di fiamme che si sprigiona repentino. Un muro d’aria mi scaraventa in avanti. Il sangue, il gelo, un conato di vomito. Il buio. E io che penso prima di svenire: “Ecoballe infarcite di sbirri, ecco cosa ci vuole in Italia. Altro che Tav”.
(ogni riferimento a cose e persone, è sicuramente casuale)
Note: tonfa è il materiale dei manganelli che la Polizia di Stato utilizzò a Genova. Fanno molto male.
Fibe, è la società che ha iniziato a costruire il forno crematorio della Campania Felix, l’inceneritore di Acerra
Rocksoil, è la madre di tutti i trafori
3500 battute in tutto, né una in più né una in meno
lunedì 26 gennaio 2009
L'utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile
Ore 16.48. 399 222221 scrive e invia un sms. 389 323232 lo riceve: “Ciao Maria, sono in riunione. Un appalto molto importante. Potresti passare tu a prendere Priscilla a scuola? Abbi pazienza, so che capirai. A dopo”.
389 323232 visualizza il messaggio alle ore 16.49. Dopodichè risponde: “Sono a scuola per i colloqui con i genitori. Mi dispiace, ma eravamo rimasti che TU ti saresti liberato in tempo. Vedi come DEVI fare, al momento non posso muovermi”.
Ore 17.11. 399 222221 legge, bestemmia, smascella. E digita di getto un altro sms: “Per cortesia, torno a ripetere: sono in riunione, è importante. Si tratta di un bel business. L’appalto della mia vita. I tuoi “genitori” capiranno. Passa tu a prendere la piccola . Ti prego”.
Silenzio. Come un numero da noi selezionato che è inesistente. Come se l’Utente chiamato non fosse al momento raggiungibile. Poi, tre tacchette all’improvviso. Rete Telescum Italia, Napoli. Ore 17.40. 389 323232 macina la punta dell’indice - con limatura dello scalino e trattamento french - della mano destra e con la sinistra scrive: “Me ne infischio. Vai subito a prendere tua figlia. Altrimenti chiedo il divorzio. Stronzo.”
Sbigottito, inorridito, incarognito 399 222221 risponde.
Ore 19.40, Questura di Napoli, intercettazione originale dell’utenza telefonica 389 323232.
Tu-tu, Tu-tu, Tu-tu,
Tuuuuu, Tuuuu, Tuuuu
“Commissariato di Polizia”
“AIUTOOOOOO”
“Come mi scusi?”
“VI PREGO AIUTATEMI (suono cacofonico di un pianto strozzato)…”
“Stia calma signora, stia calma, che succede?”
“Vuole uccidermi..vuole uccidermi…è armato”
“Lei dove si trova ora”
“A casa, via Duomo, numero 16. E lui mi vuole uccidere…”
“Ho già avvertito la Squadra Mobile, signora, saranno lì tra cinque minuti, su, non abbia paura, lei dov’è, in che stanza si trova?”
“Sono in bagno, mi nascondo, ho paura”
“Stia calma, signora, stia calma”
“Oh dio, come faccio a stare calma, oh mio dio, dio mio, ha una pistola”
“Chi?”
“Mio marito, 399 222221”
“E ora dov’è suo marito?”
“E’ qui, mi sta cercando, vuole uccidermi (singhiozzi), (monosillabi scadenzati), (respiri che s’infrangono nell’etere)”
“Stia calma, signora, stia calma. Presto una pattuglia arriverà…”
“(rumore di colpi sordi, come il calcio di una P38 che sbatte sulla porta di un bagno, dove si nasconde una donna. Poi una voce maschile in sottofondo urla)
“ECCOTI QUA. MUORI CAGNA”
“OH DIO, OH DIO”
“Signora, risponda, signora?”
“OH MIO DIO, NOOOOOOOOOOOO”. Uno Sparo. Un respiro. Interferenze. Fine della chiamata.
“AIUTOOOOOO”
“Come mi scusi?”
“VI PREGO AIUTATEMI (suono cacofonico di un pianto strozzato)…”
“Stia calma signora, stia calma, che succede?”
“Vuole uccidermi..vuole uccidermi…è armato”
“Lei dove si trova ora”
“A casa, via Duomo, numero 16. E lui mi vuole uccidere…”
“Ho già avvertito la Squadra Mobile, signora, saranno lì tra cinque minuti, su, non abbia paura, lei dov’è, in che stanza si trova?”
“Sono in bagno, mi nascondo, ho paura”
“Stia calma, signora, stia calma”
“Oh dio, come faccio a stare calma, oh mio dio, dio mio, ha una pistola”
“Chi?”
“Mio marito, 399 222221”
“E ora dov’è suo marito?”
“E’ qui, mi sta cercando, vuole uccidermi (singhiozzi), (monosillabi scadenzati), (respiri che s’infrangono nell’etere)”
“Stia calma, signora, stia calma. Presto una pattuglia arriverà…”
“(rumore di colpi sordi, come il calcio di una P38 che sbatte sulla porta di un bagno, dove si nasconde una donna. Poi una voce maschile in sottofondo urla)
“ECCOTI QUA. MUORI CAGNA”
“OH DIO, OH DIO”
“Signora, risponda, signora?”
“OH MIO DIO, NOOOOOOOOOOOO”. Uno Sparo. Un respiro. Interferenze. Fine della chiamata.
Ultimo sms ricevuto dall’utente 389 323232 :“Quando ho finito qui, con i miei clienti, giuro che vengo a casa e ti ammazzo come una cagna quale tu sei. Quanto è vero che mi chiamo 399 222221 vengo lì e ti sparo”
grazie a Loffredo Pablo, eroe del proletariato urbano, per la foto non autorizzata.
martedì 13 gennaio 2009
Vuoi sapere come ho conosciuto tua madre?
(Antefatto: il sottostante scritto consta diun assembramento di messaggi erotici originali tratti dall’ultimo numero di Passaparola. Max serietà, no perditempo, just cut up)
All’epoca ero un facoltoso professionista 45enne, di bell’aspetto, culturalmente preparato, serio ma stanco della solita routine, insoddisfatto di una società che percepivo superficiale e noiosa. Cercavo da tempo una donna di pari requisiti, che si sentisse sola dentro, disposta ad instaurare un dialogo duraturo per fidanzamento o eventuale unione.
Avevo un debole per le vedove a lutto e le divorziate giunoniche, soprattutto se autorevoli. Offrivo max riservatezza, serietà, discrezione, igiene, dotazione fisica e mentale esclusivamente a 40/50enni mature e frizzanti che avrebbero voluto evadere dalla monotonia del quotidiano. E allora, una domenica delle Palme comprai Passaparola e spulciai la pagina degli annunci. Quel giorno, non avevo voglia della solita “brasiliana dolcissima” o di un altro “Consuelo, trans non travestito”. Volevo qualcosa di diverso: basta con le grasse, le volgari, gli ipocriti, i furbastri e le avventuriere, niente club privè o bar per scambisti, né gay né indecisi. Per una sola notte desideravo una prosaica amante-madre, scevra da pregiudizi, aperta, solare e senza remore.
Così afferrai il giornale e lessi uno ad uno i messaggi erotici. Nei riquadri suddivisi da sottili linee nere e intervallati da benner pubblicitari affogati nel silicone, ogni Nome o Incipit era scritto con caratteri Bodoni dodici in grassetto, così come il numero di telefono nei titoli di coda. Passai oltre le varie Samantha occhi a mandorla, Melissa mulatta solare, Nelly Frizzante come un buon vinello. Poi, mi soffermai su un annuncio di due righe appena: “Casalinga semplice e ultra riservata cerca uomini laconici. No squilli no 4888 no sms”. Ebbi come un presagio, un formicolio elettrostatico all’altezza dell’inguine. Laconico, riumuginai mentalmente. E allora agguantai il telefono e digitai: 8996758XXX.
“Pronto, chi è?”
“Ciao, sono un quarantacinquenne di bell’aspetto, colto, single, simpatico, spigliato con spiccata personalità. Vorrei conoscere una donna, taglia quaranta/quarantadue e quinta di seno, carina, solare caratterialmente estroversa, dotata di fascino e positività. Tu chi sei?”
“Sono una casalinga che vuole ritagliare momenti della sua giornata con un amico allegro e simpatico per relazione intrigante. Non do e non cerco problemi, offro serietà e discrezione”
“Va bene. Anch’io frequento solo persone perbene, garantisco e richiedo rispetto”
“Perfetto, vieni da me, zona Lago Patria”
Copertoni bruciati ai bordi delle strade sterrate, pennacchi di fumo acre oltre le serre dove foglie di tabacco Burley marcivano al vento, odore di muffa stantia, scheletri di fabbriche dismesse nell’area industriale di Teverola, mercenarie di Odessa che tremavano al freddo dei loro lividi sotto i ponti della Tav, le carcasse di cani randagi appiccicate sull’asfalto come abre magique di pelle e ossa macilente. All’ultimo conato dell’Asse Mediano “Terra di Lavoro”, spuntò il cartello blu dell’Anas con la scritta “Lago Patria” crivellata da colpi di Parabellum 38 o forse di Magnum 367. Nelle buche della carreggiata colme di acque reflue, era dolce franare con sfrigolio di pistoni e bestemmie a mezz’aria. Quando arrivai nel villino di Ischitella dove abitava la mia casalinga laconica bussai al campanello senza provare alcuna emozione. Ormai ero pronto a tutto, non mi sorprendeva più nulla. Quanti trilli elettrici nella notte, quante chat line erotiche o noiose serate nei bagni della stazione di Caserta: quante menzogne giovanissime, grasse e volgari. Attesi immobile, vivendo con nonchalance l’attimo lieve che anticipa l’epifania dell’altro. La porta si aprì di scatto e apparve sull’uscio una provocante casalinga 37enne, tonda e morbida, amante delle cose semplici, di ottimo livello. Mentre si mordeva le labbra sanguinanti di rossetto, sorridendo, mi disse con le iridi fluorescenti: “Non cerco sesso ma solo un uomo di elevato valore socio culturale con onestà e nobiltà d’animo”.
Le sue parole raggiunsero nel profondo, come sanpietrini vocali, lo stagno languido della mia inedia.
“Anche tu mi sembri brillante e piacente, di aspetto curato. Casalinga laconica di solidi valori morali, non fumatrice, non drogata: proprio come piacciono a me”.
Cenammo con delizie dei Borbone e salsiccia piccante di Mondragone, entrambe affogate nel Falerno del Massico: poi, verso mezzanotte, polacchine riscaldate nel micro-onde Delonghi. Un caffè, due limoncelli, ed un’altra bottiglia di Lacryma Christi per espatriare. Dopo aver comunicato telepaticamente tutta la notte ci ritrovammo distesi sul letto a due piazze: mentre con le mani le accarezzavo i capelli corvini e l’ovale lindo del volto striato dalle prime rughe adolescenziali, ci addormentammo abbracciati.
Al mattino, l’odore di caffè mi trascinò nella veglia. Lei era ancora al mio fianco, con due tazzine posate sul vassoietto portatile: “Se anche domani mi sveglio e voglio te, tu cosa pensi di me?”
“Penso che io, in fondo, sono un energetico passivo come tanti, un trans mancato con il fisico da urlo che al mattino si sente solo. Ubbidiente e sottomesso desidero di imparare la mia severa disciplina da una padrona autoritaria”.
“Fuori dalla mischia”, rispose lei, “io cerco uomini carini per piacevole, intrigante, disinteressata, amicizia”.
Infine, dopo aver sorseggiato l’espresso, sussurrò a pochi centimetri dal mio meato acustico esterno: “Ora che sei qui con me, già immagino io e te come coppia biricchina. Marito e moglie che di tanto in tanto cercano su Passaparola un ragazzo molto effeminato che diventi il loro vibratore in pantacollant”.
“Ma io non voglio altra ubbidienza e sottomissione. Io ho tanto amore da dare e tu sei estroversa, dotata di fascino e positività”, dissi alla mia casalinga languida, “ho cercato per anni diversi momenti all’insegna dell’amicizia e invece mi sono ritrovato a condividere notti bianche in compagnia di un bel moro non libero e depresso. Basta così. Niente più annunci e telefonate frivole. Vuoi sposarmi?”
“No, perditempo, baciami, per ora”. Da quell’istante, io e la casalinga solare e languida, vivemmo una relazione all’insegna della trasgressione fino a quando, al termine di una notte illuminata da un’esplosione di dolcezza, non venisti al mondo tu. E fu allora che decidemmo di sposarci. Io e tua madre.
All’epoca ero un facoltoso professionista 45enne, di bell’aspetto, culturalmente preparato, serio ma stanco della solita routine, insoddisfatto di una società che percepivo superficiale e noiosa. Cercavo da tempo una donna di pari requisiti, che si sentisse sola dentro, disposta ad instaurare un dialogo duraturo per fidanzamento o eventuale unione.
Avevo un debole per le vedove a lutto e le divorziate giunoniche, soprattutto se autorevoli. Offrivo max riservatezza, serietà, discrezione, igiene, dotazione fisica e mentale esclusivamente a 40/50enni mature e frizzanti che avrebbero voluto evadere dalla monotonia del quotidiano. E allora, una domenica delle Palme comprai Passaparola e spulciai la pagina degli annunci. Quel giorno, non avevo voglia della solita “brasiliana dolcissima” o di un altro “Consuelo, trans non travestito”. Volevo qualcosa di diverso: basta con le grasse, le volgari, gli ipocriti, i furbastri e le avventuriere, niente club privè o bar per scambisti, né gay né indecisi. Per una sola notte desideravo una prosaica amante-madre, scevra da pregiudizi, aperta, solare e senza remore.
Così afferrai il giornale e lessi uno ad uno i messaggi erotici. Nei riquadri suddivisi da sottili linee nere e intervallati da benner pubblicitari affogati nel silicone, ogni Nome o Incipit era scritto con caratteri Bodoni dodici in grassetto, così come il numero di telefono nei titoli di coda. Passai oltre le varie Samantha occhi a mandorla, Melissa mulatta solare, Nelly Frizzante come un buon vinello. Poi, mi soffermai su un annuncio di due righe appena: “Casalinga semplice e ultra riservata cerca uomini laconici. No squilli no 4888 no sms”. Ebbi come un presagio, un formicolio elettrostatico all’altezza dell’inguine. Laconico, riumuginai mentalmente. E allora agguantai il telefono e digitai: 8996758XXX.
“Pronto, chi è?”
“Ciao, sono un quarantacinquenne di bell’aspetto, colto, single, simpatico, spigliato con spiccata personalità. Vorrei conoscere una donna, taglia quaranta/quarantadue e quinta di seno, carina, solare caratterialmente estroversa, dotata di fascino e positività. Tu chi sei?”
“Sono una casalinga che vuole ritagliare momenti della sua giornata con un amico allegro e simpatico per relazione intrigante. Non do e non cerco problemi, offro serietà e discrezione”
“Va bene. Anch’io frequento solo persone perbene, garantisco e richiedo rispetto”
“Perfetto, vieni da me, zona Lago Patria”
Copertoni bruciati ai bordi delle strade sterrate, pennacchi di fumo acre oltre le serre dove foglie di tabacco Burley marcivano al vento, odore di muffa stantia, scheletri di fabbriche dismesse nell’area industriale di Teverola, mercenarie di Odessa che tremavano al freddo dei loro lividi sotto i ponti della Tav, le carcasse di cani randagi appiccicate sull’asfalto come abre magique di pelle e ossa macilente. All’ultimo conato dell’Asse Mediano “Terra di Lavoro”, spuntò il cartello blu dell’Anas con la scritta “Lago Patria” crivellata da colpi di Parabellum 38 o forse di Magnum 367. Nelle buche della carreggiata colme di acque reflue, era dolce franare con sfrigolio di pistoni e bestemmie a mezz’aria. Quando arrivai nel villino di Ischitella dove abitava la mia casalinga laconica bussai al campanello senza provare alcuna emozione. Ormai ero pronto a tutto, non mi sorprendeva più nulla. Quanti trilli elettrici nella notte, quante chat line erotiche o noiose serate nei bagni della stazione di Caserta: quante menzogne giovanissime, grasse e volgari. Attesi immobile, vivendo con nonchalance l’attimo lieve che anticipa l’epifania dell’altro. La porta si aprì di scatto e apparve sull’uscio una provocante casalinga 37enne, tonda e morbida, amante delle cose semplici, di ottimo livello. Mentre si mordeva le labbra sanguinanti di rossetto, sorridendo, mi disse con le iridi fluorescenti: “Non cerco sesso ma solo un uomo di elevato valore socio culturale con onestà e nobiltà d’animo”.
Le sue parole raggiunsero nel profondo, come sanpietrini vocali, lo stagno languido della mia inedia.
“Anche tu mi sembri brillante e piacente, di aspetto curato. Casalinga laconica di solidi valori morali, non fumatrice, non drogata: proprio come piacciono a me”.
Cenammo con delizie dei Borbone e salsiccia piccante di Mondragone, entrambe affogate nel Falerno del Massico: poi, verso mezzanotte, polacchine riscaldate nel micro-onde Delonghi. Un caffè, due limoncelli, ed un’altra bottiglia di Lacryma Christi per espatriare. Dopo aver comunicato telepaticamente tutta la notte ci ritrovammo distesi sul letto a due piazze: mentre con le mani le accarezzavo i capelli corvini e l’ovale lindo del volto striato dalle prime rughe adolescenziali, ci addormentammo abbracciati.
Al mattino, l’odore di caffè mi trascinò nella veglia. Lei era ancora al mio fianco, con due tazzine posate sul vassoietto portatile: “Se anche domani mi sveglio e voglio te, tu cosa pensi di me?”
“Penso che io, in fondo, sono un energetico passivo come tanti, un trans mancato con il fisico da urlo che al mattino si sente solo. Ubbidiente e sottomesso desidero di imparare la mia severa disciplina da una padrona autoritaria”.
“Fuori dalla mischia”, rispose lei, “io cerco uomini carini per piacevole, intrigante, disinteressata, amicizia”.
Infine, dopo aver sorseggiato l’espresso, sussurrò a pochi centimetri dal mio meato acustico esterno: “Ora che sei qui con me, già immagino io e te come coppia biricchina. Marito e moglie che di tanto in tanto cercano su Passaparola un ragazzo molto effeminato che diventi il loro vibratore in pantacollant”.
“Ma io non voglio altra ubbidienza e sottomissione. Io ho tanto amore da dare e tu sei estroversa, dotata di fascino e positività”, dissi alla mia casalinga languida, “ho cercato per anni diversi momenti all’insegna dell’amicizia e invece mi sono ritrovato a condividere notti bianche in compagnia di un bel moro non libero e depresso. Basta così. Niente più annunci e telefonate frivole. Vuoi sposarmi?”
“No, perditempo, baciami, per ora”. Da quell’istante, io e la casalinga solare e languida, vivemmo una relazione all’insegna della trasgressione fino a quando, al termine di una notte illuminata da un’esplosione di dolcezza, non venisti al mondo tu. E fu allora che decidemmo di sposarci. Io e tua madre.
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foto /non autorizzata/ di Jannakis
sabato 3 gennaio 2009
Io vengo dal morto e tu dici che è vivo
(Tic - 7.58 - Tac)(Tic - 7.59 - Tac)(Tic- 8.00 driiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiinnnnnn)
Lo stridio della sveglia perforò l’alone di una notte ad alta densità onirica. Giovanni si destò di soprassalto, sbarrando le palpebre come se si fosse azionato l’antifurto del sub-conscio e con uno scatto canino del braccio destro si liberò dal dolce assedio del plaid. Ne aveva sperimentate tante, e dopo centinaia di test stralunati capì che l’unico modo per uscire subito dal cono d’ombra del R.e.m. era quello di passare dal caldo materno della coperta al freddo paterno del nuovo giorno. Solo un violento shock termico lo spronava al faticoso mestiere del mattino. In pigiama Giovanni annaspò verso la scrivania raccogliendo libri e quaderni e penne e diari. Una volta compressa nell’Invicta l’attrezzatura da studente del primo anno di liceo, Nino passò alla fase B, di sicuro la meno impegnativa: vestirsi. Ma visto che il tempo scarseggiava non potè fare altro che indossare i panni del giorno prima, un jeans più largo di un paio di taglie regalatogli dalla nonna per Natale, la camicia azzurra appartenuta a sua fratello Egidio una decina di anni prima ed il maglione di lana, opprimente come il pastrano di una Guardia Rossa nella Kolyma. Nel mentre, una spruzzatina di deodorante spray, due colpi di spazzola per domare le vertigini uterine tra i capelli arruffati ed il grande affanno della vestizione quotidiana, un rito che si ripeteva costante con meccanica ortodossia, volse al termine.
Quel lunedì aveva un sapore posticcio, diverso da tutti gli altri succedutisi dall’inizio dell’anno scolastico: era l’antivigilia della Natività, ed appena altre quattro ore di passione tra i banchi separavano Giovanni da un lungo intermezzo di abbuffate con la sacra famiglia al completo frammiste a visite da nonni/zii/cugini. Una prospettiva poco allettante per Nino, il quale ormai, non pensava ad altro se non alla SUA pelle di porcellana lucida, all’azzurro vespertino delle iridi pregne di incanto, alle labbra rosa a forma di giglio. La pausa natalizia lo angosciava come un black out improvviso, di quelli che condannano le esistenze al buio pesto per motivi meramente burocratici. Scampoli di inquietudine sbocciarono carsici e Giovanni si precipitò verso la porta della cameretta ancora avvolta nella penombra, la spalancò e passò oltre. Nel corridoio stretto e lungo, i fasci di lampadine che stritolavano l’abete di plastica diffondevano un alone di luce tremante. Tra le mensole alle pareti, un magma disarticolato di addobbi natalizi, piccole statuette di Santa Claus e candele di cera dorata. I suoi genitori, come sempre, erano già svegli e parlottavano tra di loro al di là dell’uscio della cucina. Con passo di gatto ramingo, Gianni si accostò al muro e senza farsi sentire ascoltò l’alternarsi ritmico delle voci soffocate della Mamma e del Papà:
“Non voglio che nostro figlio cresca insieme a quel teppista”, disse la Mà.
“Tutto sommato si tratta ancora di un adolescente”, rispose il Pà.
“Giorgio, ma che dici? Camorristi si nasce, te ne sei dimenticato? Sai chi è suo padre? Ti ricordi cosa ha fatto?”
“Certo, certo”
“Eh no caro, lascia che ti rinfreschi la memoria. Pasquale Cicciariello è il figlio di Salvatore, il boss che ha comandato la tentata strage di San Gennaro in combutta con Mario Zagamia e Walter Schiattone. Ed io non voglio che il compagno di banco di mio figlio sia il primogenito di un assassino, capisci?”
“Si, si, dannazione, capisco. E allora dimmi, che dovremmo fare?”, rispose il Papà con una smorfia di fastidio disegnata sul volto ben rasato.
“Semplice, andiamo dal preside del Liceo e diciamogli che per motivi di lavoro per noi è meglio che Ninotto frequenti il liceo di Aversa. Niente spiegazioni e niente domande. Non credo che ci sia altra soluzione”.
Giovanni rimase immobile, senza fiatare, con le orecchie drizzate a mò di antenne, e non appena captò quel piano diabolico architettato a sua insaputa dalla Madre e dal Padre urlò dal corridoio.
“Io vado, ci vediamo dopo”
“Aspetta….”, invocò la madre di rimpallo.
“No, sono in ritardo devo scappare”
Sgattaiolando Nino guadagnò l’attaccapanni, afferrò il giubbotto e uscì di casa, dirigendosi verso la Bmx Exit con cerchi in alluminio a 48 fori e telaio verde Hi-Ten freestyle. Balzò in sella e ruzzolò in strada pedalando con furia, nel tentativo di lasciarsi dietro pensieri cupi e lacrime a mezz’aria.
A bordo della sua bici nuova di zecca, Giovanni sfrecciava a 50 all’ora tra le venelle di Castel di Principe. Il fruscio dei raggi che ruotavano fulminei gli procurava una sensazione di volatilità mai provata prima. La Bmx era il suo ippogrifo verde, e con sferzate rapide del manubrio Giovanni schivava passanti ancora assonnati e macchine parcheggiate di raso ai muri delle case. Volava oltre i cancelli grigi sormontati dalle telecamere a circuito chiuso, al di là delle inferriate delle ville faraoniche degli uomini di malaffare e le botteghe degli artigiani che sistemavano merci nelle vetrine agghindate a festa. La Exit con cerchi in alluminio era un capolavoro in locomotion, leggera ed assertiva. Suo padre l’aveva comprata allo spaccio della Nato di Gricignano e lui non aveva resistito: senza aspettare il 25 notte scartò il pacco da regalo e prese subito possesso della sua Lamborghini a due ruote. E quella mattina dell’antivigilia Gianni stantuffava sui pedali e malediceva chi tramava oltre l’uscio della cucina per strapparlo via dalla SUA calamita di pelle liscia e scivolosa, dal SUO mare azzurro sormontato da nuvole euritmiche, dalle SUE labbra rosa a forma di giglio che quando si schiudevano in un sorriso coloravano l’orizzonte di fucsia. D’un tratto, mentre percorreva a tutta velocità via Scatozza, Nino fu costretto a frenare per evitare di schiantarsi contro un motorino Hornet che, sbucando all’improvviso, si era piazzato nel centro della strada. I freni a disco bloccarono le ruote all’istante e la Bmx slittò fermandosi giusto a pochi centimetri dallo scooter sul quale c’erano due giovinastri senza casco. Li riconobbe subito: alla guida c’era Paride Schiattone, detto “Il Pitbull” nipote di secondo grado del super-boss condannato all’ergastolo in quanto mandante di sedici efferati omicidi e dietro di lui Castrese Zagamia, alias “La Iena”, secondogenito del venticinquesimo latitante più pericoloso d’Italia. Giovanni restò immobile e capì subito di essere in serio pericolo.
“Cumpariello”, sibilò ironico Paride Schiattone scendendo dal motorino, “ma che bella bicicletta che ti sei comprato. Fammi fare un giro, dai”
Senza opporre alcuna resistenza, per puro spirito di sopravvivenza, Giovanni acconsentì farfugliando a testa bassa: “E va bene, ecco qua”
Paride afferrò il manubrio con le mani tozze ricoperte da una peluria tipo lupo mannaro, montò sul sediolino con un salto goffo, si girò verso Castrese Zagamia e sghignazzò:
“Azzo e com’è tosto stò sediolino, si vede che al culo del nostro cumpariello ci piace così duro”. Poi, ridendo beffardo, iniziò a pedalare verso la strada sulla destra: “Oooo, levatevi davanti che vi butto sotto, mannaggia i cani di cancello”, urlò goliardico a dei pedoni immaginari.
Zagamia, dal canto suo, accese una Marlboro rossa serrando le mascelle prorompenti. Giovanni, pietrificato, contava gli attimi e poi i minuti, diventando sempre più ansioso. Tuttavia, evitava di palesare all’altro scagnozzo la sua inquietudine, altrimenti, e lui lo sapeva bene, sarebbe stato deriso o, tanto peggio, selvaggiamente picchiato per il solo motivo di aver manifestato impazienza. Senza dare troppo nell’occhio, sbirciò il cellulare: otto e un quarto, altri venti minuti e sarebbe suonata la campanella.
Iniziò a temere che non ce l’avrebbe fatta ad entrare in tempo, che il bidello del Liceo, tale don Raffaele Tavoletta, lo avrebbe ricoperto di insulti intimandogli di tornarsene a casa, come faceva sempre quando Giovanni arrivava in ritardo. Sebbene Nino si mosse come un ninja per riporre nella tasca del giubbotto il Nokia, Castrese Zagamia intercettò i suoi armeggiamenti con il telefonino ed intimò: “Che è stato? Vai di fretta? Vuoi chiamare la mamma?”
“No, no, quando mai, stavo controllando se mi era arrivato un messaggio”
“Ah si, dammi qua”, con un guizzo Castrese alias “La Iena” strappò il cellulare dalle mani di Giovanni, il quale, ebbe un singulto incondizionato di pura ribellione e gridò: “Ooo, ridammelo”.
Proprio in quel frangente, a bordo della Bmx Exit verde fiammante, comparve dal retro Paride Schiattone. Sgommando, “Il Pitbull” si frappose tra i due contendenti e ringhiò minaccioso verso Giovanni:
“Cumpariè non ti innervosire più di tanto che ti rovini il fegato”, poi lasciò crollare a terra la bici che, schiantandosi, emise un vagito metallico. Non pago, Paride tirò un calcio alla ruota e diversi raggi si spaccarono in due come grissini. Un brivido gelido saettò sulla schiena di Gianni.
“E allora, che vogliamo fare? I prepotenti vogliamo fare”, disse con tono di sfida il nipote del super boss mentre si avvicinò alla sua preda tanto che i loro volti quasi si sfioravano. Il suo alito appestato dalla nicotina e gli occhi cerchiati dalle borse nere occupavano tutto il campo visivo del malcapitato che, nonostante la paura viscerale riuscì a mantenere la calma senza mostrare segni di cedimento emotivo. Il cuore gli batteva a mille e Giovanni sperava che qualche automobilista di passaggio si sarebbe fermato per salvarlo da quella mala parata.
Purtroppo, ogni attesa fu vana. L’indifferenza, come l’asfalto, percorreva le strade di quel paese di confine nella Terra dei Mazzoni. Paride, più minaccioso che mai, ruggì: “Vuoi vedere che ti taglio la testa?”. In un nanosecondo il personal computer incastonato nel cranio di Giovanni elaborò l’output: (((se dico Si, questo mi uccide di botte, invece, se opto per il No forse sopravvivo))).
“No”, sentenziò allora Nino con tutta la calma possibile.
La risposta, piatta e serafica, spiazzò Paride detto “Il Pitbull”.
“Come no?”
“Eh, scusami, ho detto no, non voglio vedere come mi picchi”
“Aaaaaazzo”, tagliò corto Paride, “ma allora vedi che sei un piccione? Allora vedi che sei un ricchione senza palle”. E mentre il nipote del super boss si apprestava a sferrare un pugno in faccia a Giovanni le note di un brano cantato da Gennarino Diana irruppero tra il nipote di sangue del superboss e la sua docile gallina ormai pronta per essere spennata. Una Smart color viola sgargiante si era accostata ai tre giovani castellani. Dalle casse dello stereo pompava ad altissimo volume l’ultimo hit del neo-melodico di Ischitella, amatissimo tra i carcerati nella casa circondariale di San Tammaro. Dalla Smart scese lentamente un giovanotto vestito di tutto punto. Indossava stivaletti Hogan con stringhe argentate, un blu jeans attillato della Richmond, una camicia di stoffa color rosa schocking con piccoli brillanti Swarovski che spuntavano dalle asole e grandi lettere nere ricamate sui polsini: SC. Le iniziali di Simmaco Cicciariello, figlio dell’attuale reggente del clan e committente della tentata strage di San Gennaro, rispettato e venerato da tutti in quanto unico erede dell’impero criminale costruito con sangue e sudore da suo padre, l’osannato mammasantissima. Intanto che si avvicinava a Paride e Giovanni, Simmaco alzò il colletto della camicia con un gesto hollywoodiano, e tutti poterono ammirare altre due stringhe nere a forma di SC.
“Embè?”, chiese con voce ferma e possente, “che succede qua?”
“OOoo Simmaco”, rispose docile Paride che sino ad allora aveva soltanto ringhiato.
“Niente, è tutto a posto. Questo canarino ha sbagliato a parlare”
“Perché”, chiese Simmaco, “che fa detto?”. Giovanni, incredulo, lo scrutò a bocca aperta. Quel ragazzo di 16 anni che già guidava una Smart era il suo compagno di classe da poco meno di una settimana, ossia da quando era stato scarcerato dal riformatorio per aver pestato a sangue un ignaro supplente che aveva osato appioppargli un due al compito di latino. I suo genitori, quella mattina, parlavano proprio di Simmaco e non volevano per nessun motivo al mondo che il loro amato figlio unico frequentasse lui e tutti i bulli della sua risma.
“Come che ha fatto?”, domandò a sé stesso Paride, “ma non lo vedi che è un piccione? Quanto è vero iddio mò gli stacco la testa a morsi”.
“Ueeeeeee”, fece Simmaco, “e non ti dare tutto stò fastidio. Ma quale piccione, non lo sai che Giovanni tiene un pesce grosso così?”, e indicò con la mano destra sull’avambraccio le dimensioni del pene del suo compagno di studi.
“Simmaco, ma sei impazzito? Questo è un ricchione senza palle”
“Paride, bello al fratello, ora basta. Io vengo dal morto e tu dici che è vivo. Ti assicuro che Ninotto c’ha un pesce grande così e mò lasciateci in pace che ci penso io a lui”. Senza battere ciglio, Giovanni guardò per l’ultima volta quella che doveva essere la sua dolce vittima sacrificale, poi sputò per terra e si mise alla guida dell’Hornet sfrecciando via a tutto gas. Quando i due lupi se ne andarono con la coda tra le gambe, Giovanni sollevò da terra la bicicletta malconcia, poi osservò Simmaco di sbieco e, abbassando la testa, sussurrò all’erede di don Pasquale Cicciariello: “Grazie…”
Simmaco grugnì, vide che i raggi della ruota si erano rotti e suggerì a Nino: “Mettila sul retro che ti accompagno io a scuola”.
Giovanni afferrò la Bmx poi smontò la ruota anteriore, aprì il portabagagli della Smart e caricò sul retro la bici. Infine, si sedette al fianco di Simmaco e per un momento si sentì forte come un leone di fronte ad un elefante addomesticato.
All’ingresso del Liceo statale, don Raffaele Tavoletta, alias “Il guardiano”, ossia il bidello più temuto da tutti i ritardatari cronici, stava per chiudere il portone centrale della scuola. Erano le nove meno cinque, ed oltre quindici minuti erano trascorsi dal limite massimo per entrare alla prima ora. Giovanni già si immaginava una ramanzina gratuita in stretto dialetto castellese. D’altronde non era certo la prima volta che si presentava fuori tempo massimo. Ma questa volta impugnava il coltello dalla parte del manico. Al suo fianco camminava spavaldo un ragazzo che calzava gli stivaletti Hogan ed una camicia color rosa sgargiante con due grandi lettere nere ricamate sui polsini: SC.
“Ciao Simmaco caro, come stai? Entra pure, prego…prego”, disse querulo don Raffaele mentre accennava un inchino con sommo stupore di Giovanni.
“Con calma, vai gioia, vai e buon Natale a te e a tutta la Famiglia”, aggiunse melenso. E allora, fianco a fianco, Simmaco e Giovanni passarono oltre le porte chiuse delle aule da cui sgusciavano stralci sonori di lezioni di latino, urla isteriche di professori in burnout e grida di alunni scatenati. I termosifoni emanavano aloni di calore artefatto e dalle finestre sbarrate con massicce inferriate filtravano bagliori sonnolenti dal mattino dell’antivigilia del Natale. Se avesse potuto scegliere una canzone come colonna sonora di quella mattinata di gloria vissuta, Giovanni avrebbe scelto Lunchbox di Marylin Manson. Chissà se Simmaco ascoltava Marylin Manson. Ma Nino con il suo pesce grosso così, preferì gettare acqua stantia sulla vampata di curiosità. Giunti sull’uscio della loro aula, la Prima D, Simmaco aprì la porta senza bussare: un privilegio riservato a pochi, forse solo a don Tavoletta ed al Preside. La professoressa di Matematica, quella cagna della Di Cerbo, si girò di scatto. Tutto si aspettava tranne che la sagoma enorme ed inquietante del rampollo de iper-boss. Se fosse entrato uno sfigato qualsiasi dei suoi discenti, l’immonda avrebbe urlato come un’ossessa e tutti si sarebbero messi a ridere. Ed invece la professoressa non battè ciglio e la classe restò muta. Simmaco si diresse verso il suo banco e Giovanni, finalmente, raggiunse la SUA agognata meta. Più di una volta, in quel dannato lunedì dell’antivigilia, ebbe paura di non farcela in tempo, di non riuscire ad incontrare LEI per l’ultima volta prima della pausa natalizia. Al solo pensiero di passare due settimane di fila senza contemplarLA, il cuore starnazzava al suolo come una papera dalle ali tarpate. Per grazia ricevuta, al termine di una travagliata mezz’ora sulle strade di Castel di Principe, Giovanni poteva finalmente contemplare la Sua bambolina di porcellana traslucida, l’azzurro vespertino delle iridi, le labbra rosa a forma di giglio che quando si schiudevano in un sorriso coloravano l’orizzonte di fucsia. Eccola, la sua unica edera in quel delirio urbano di case ammassate, radiosa come l’alba del Giorno del Giudizio e limpida come la luna che si specchia nell’acquitrino languido di un allevamento di bufale dormienti. La guardò negli occhi e telepaticamente sussurrò: “Non temere, non permetterò a nessuno di separarci. Né ai miei genitori, né a Paride Schiattone, né a don Tavoletta”. Una volta sedutosi al SUO fianco, al penultimo banco, si girò in avanti e vide Simmaco che, dopo essersi sistemato al suo posto si alzò di nuovo il colletto della camicia per mostrare alla professoressa, in segno di sfida, le due enormi SC ricamate. Poi si voltò verso il suo unico raggio di luce e le lanciò un timido, timidissimo sorriso. Infine, fece scivolare il braccio sotto il banco, e al riparo da occhi indiscreti, le prese la mano, stringendola forte in una flebile carezza. Il settimo cielo tra le sue dita. Ora, Si. Se Paride Schiattone gli avesse chiesto “vuoi vedere come ti taglio la testa?” Gianni il piccione avrebbe risposto “Si, fai pure...
Lo stridio della sveglia perforò l’alone di una notte ad alta densità onirica. Giovanni si destò di soprassalto, sbarrando le palpebre come se si fosse azionato l’antifurto del sub-conscio e con uno scatto canino del braccio destro si liberò dal dolce assedio del plaid. Ne aveva sperimentate tante, e dopo centinaia di test stralunati capì che l’unico modo per uscire subito dal cono d’ombra del R.e.m. era quello di passare dal caldo materno della coperta al freddo paterno del nuovo giorno. Solo un violento shock termico lo spronava al faticoso mestiere del mattino. In pigiama Giovanni annaspò verso la scrivania raccogliendo libri e quaderni e penne e diari. Una volta compressa nell’Invicta l’attrezzatura da studente del primo anno di liceo, Nino passò alla fase B, di sicuro la meno impegnativa: vestirsi. Ma visto che il tempo scarseggiava non potè fare altro che indossare i panni del giorno prima, un jeans più largo di un paio di taglie regalatogli dalla nonna per Natale, la camicia azzurra appartenuta a sua fratello Egidio una decina di anni prima ed il maglione di lana, opprimente come il pastrano di una Guardia Rossa nella Kolyma. Nel mentre, una spruzzatina di deodorante spray, due colpi di spazzola per domare le vertigini uterine tra i capelli arruffati ed il grande affanno della vestizione quotidiana, un rito che si ripeteva costante con meccanica ortodossia, volse al termine.
Quel lunedì aveva un sapore posticcio, diverso da tutti gli altri succedutisi dall’inizio dell’anno scolastico: era l’antivigilia della Natività, ed appena altre quattro ore di passione tra i banchi separavano Giovanni da un lungo intermezzo di abbuffate con la sacra famiglia al completo frammiste a visite da nonni/zii/cugini. Una prospettiva poco allettante per Nino, il quale ormai, non pensava ad altro se non alla SUA pelle di porcellana lucida, all’azzurro vespertino delle iridi pregne di incanto, alle labbra rosa a forma di giglio. La pausa natalizia lo angosciava come un black out improvviso, di quelli che condannano le esistenze al buio pesto per motivi meramente burocratici. Scampoli di inquietudine sbocciarono carsici e Giovanni si precipitò verso la porta della cameretta ancora avvolta nella penombra, la spalancò e passò oltre. Nel corridoio stretto e lungo, i fasci di lampadine che stritolavano l’abete di plastica diffondevano un alone di luce tremante. Tra le mensole alle pareti, un magma disarticolato di addobbi natalizi, piccole statuette di Santa Claus e candele di cera dorata. I suoi genitori, come sempre, erano già svegli e parlottavano tra di loro al di là dell’uscio della cucina. Con passo di gatto ramingo, Gianni si accostò al muro e senza farsi sentire ascoltò l’alternarsi ritmico delle voci soffocate della Mamma e del Papà:
“Non voglio che nostro figlio cresca insieme a quel teppista”, disse la Mà.
“Tutto sommato si tratta ancora di un adolescente”, rispose il Pà.
“Giorgio, ma che dici? Camorristi si nasce, te ne sei dimenticato? Sai chi è suo padre? Ti ricordi cosa ha fatto?”
“Certo, certo”
“Eh no caro, lascia che ti rinfreschi la memoria. Pasquale Cicciariello è il figlio di Salvatore, il boss che ha comandato la tentata strage di San Gennaro in combutta con Mario Zagamia e Walter Schiattone. Ed io non voglio che il compagno di banco di mio figlio sia il primogenito di un assassino, capisci?”
“Si, si, dannazione, capisco. E allora dimmi, che dovremmo fare?”, rispose il Papà con una smorfia di fastidio disegnata sul volto ben rasato.
“Semplice, andiamo dal preside del Liceo e diciamogli che per motivi di lavoro per noi è meglio che Ninotto frequenti il liceo di Aversa. Niente spiegazioni e niente domande. Non credo che ci sia altra soluzione”.
Giovanni rimase immobile, senza fiatare, con le orecchie drizzate a mò di antenne, e non appena captò quel piano diabolico architettato a sua insaputa dalla Madre e dal Padre urlò dal corridoio.
“Io vado, ci vediamo dopo”
“Aspetta….”, invocò la madre di rimpallo.
“No, sono in ritardo devo scappare”
Sgattaiolando Nino guadagnò l’attaccapanni, afferrò il giubbotto e uscì di casa, dirigendosi verso la Bmx Exit con cerchi in alluminio a 48 fori e telaio verde Hi-Ten freestyle. Balzò in sella e ruzzolò in strada pedalando con furia, nel tentativo di lasciarsi dietro pensieri cupi e lacrime a mezz’aria.
A bordo della sua bici nuova di zecca, Giovanni sfrecciava a 50 all’ora tra le venelle di Castel di Principe. Il fruscio dei raggi che ruotavano fulminei gli procurava una sensazione di volatilità mai provata prima. La Bmx era il suo ippogrifo verde, e con sferzate rapide del manubrio Giovanni schivava passanti ancora assonnati e macchine parcheggiate di raso ai muri delle case. Volava oltre i cancelli grigi sormontati dalle telecamere a circuito chiuso, al di là delle inferriate delle ville faraoniche degli uomini di malaffare e le botteghe degli artigiani che sistemavano merci nelle vetrine agghindate a festa. La Exit con cerchi in alluminio era un capolavoro in locomotion, leggera ed assertiva. Suo padre l’aveva comprata allo spaccio della Nato di Gricignano e lui non aveva resistito: senza aspettare il 25 notte scartò il pacco da regalo e prese subito possesso della sua Lamborghini a due ruote. E quella mattina dell’antivigilia Gianni stantuffava sui pedali e malediceva chi tramava oltre l’uscio della cucina per strapparlo via dalla SUA calamita di pelle liscia e scivolosa, dal SUO mare azzurro sormontato da nuvole euritmiche, dalle SUE labbra rosa a forma di giglio che quando si schiudevano in un sorriso coloravano l’orizzonte di fucsia. D’un tratto, mentre percorreva a tutta velocità via Scatozza, Nino fu costretto a frenare per evitare di schiantarsi contro un motorino Hornet che, sbucando all’improvviso, si era piazzato nel centro della strada. I freni a disco bloccarono le ruote all’istante e la Bmx slittò fermandosi giusto a pochi centimetri dallo scooter sul quale c’erano due giovinastri senza casco. Li riconobbe subito: alla guida c’era Paride Schiattone, detto “Il Pitbull” nipote di secondo grado del super-boss condannato all’ergastolo in quanto mandante di sedici efferati omicidi e dietro di lui Castrese Zagamia, alias “La Iena”, secondogenito del venticinquesimo latitante più pericoloso d’Italia. Giovanni restò immobile e capì subito di essere in serio pericolo.
“Cumpariello”, sibilò ironico Paride Schiattone scendendo dal motorino, “ma che bella bicicletta che ti sei comprato. Fammi fare un giro, dai”
Senza opporre alcuna resistenza, per puro spirito di sopravvivenza, Giovanni acconsentì farfugliando a testa bassa: “E va bene, ecco qua”
Paride afferrò il manubrio con le mani tozze ricoperte da una peluria tipo lupo mannaro, montò sul sediolino con un salto goffo, si girò verso Castrese Zagamia e sghignazzò:
“Azzo e com’è tosto stò sediolino, si vede che al culo del nostro cumpariello ci piace così duro”. Poi, ridendo beffardo, iniziò a pedalare verso la strada sulla destra: “Oooo, levatevi davanti che vi butto sotto, mannaggia i cani di cancello”, urlò goliardico a dei pedoni immaginari.
Zagamia, dal canto suo, accese una Marlboro rossa serrando le mascelle prorompenti. Giovanni, pietrificato, contava gli attimi e poi i minuti, diventando sempre più ansioso. Tuttavia, evitava di palesare all’altro scagnozzo la sua inquietudine, altrimenti, e lui lo sapeva bene, sarebbe stato deriso o, tanto peggio, selvaggiamente picchiato per il solo motivo di aver manifestato impazienza. Senza dare troppo nell’occhio, sbirciò il cellulare: otto e un quarto, altri venti minuti e sarebbe suonata la campanella.
Iniziò a temere che non ce l’avrebbe fatta ad entrare in tempo, che il bidello del Liceo, tale don Raffaele Tavoletta, lo avrebbe ricoperto di insulti intimandogli di tornarsene a casa, come faceva sempre quando Giovanni arrivava in ritardo. Sebbene Nino si mosse come un ninja per riporre nella tasca del giubbotto il Nokia, Castrese Zagamia intercettò i suoi armeggiamenti con il telefonino ed intimò: “Che è stato? Vai di fretta? Vuoi chiamare la mamma?”
“No, no, quando mai, stavo controllando se mi era arrivato un messaggio”
“Ah si, dammi qua”, con un guizzo Castrese alias “La Iena” strappò il cellulare dalle mani di Giovanni, il quale, ebbe un singulto incondizionato di pura ribellione e gridò: “Ooo, ridammelo”.
Proprio in quel frangente, a bordo della Bmx Exit verde fiammante, comparve dal retro Paride Schiattone. Sgommando, “Il Pitbull” si frappose tra i due contendenti e ringhiò minaccioso verso Giovanni:
“Cumpariè non ti innervosire più di tanto che ti rovini il fegato”, poi lasciò crollare a terra la bici che, schiantandosi, emise un vagito metallico. Non pago, Paride tirò un calcio alla ruota e diversi raggi si spaccarono in due come grissini. Un brivido gelido saettò sulla schiena di Gianni.
“E allora, che vogliamo fare? I prepotenti vogliamo fare”, disse con tono di sfida il nipote del super boss mentre si avvicinò alla sua preda tanto che i loro volti quasi si sfioravano. Il suo alito appestato dalla nicotina e gli occhi cerchiati dalle borse nere occupavano tutto il campo visivo del malcapitato che, nonostante la paura viscerale riuscì a mantenere la calma senza mostrare segni di cedimento emotivo. Il cuore gli batteva a mille e Giovanni sperava che qualche automobilista di passaggio si sarebbe fermato per salvarlo da quella mala parata.
Purtroppo, ogni attesa fu vana. L’indifferenza, come l’asfalto, percorreva le strade di quel paese di confine nella Terra dei Mazzoni. Paride, più minaccioso che mai, ruggì: “Vuoi vedere che ti taglio la testa?”. In un nanosecondo il personal computer incastonato nel cranio di Giovanni elaborò l’output: (((se dico Si, questo mi uccide di botte, invece, se opto per il No forse sopravvivo))).
“No”, sentenziò allora Nino con tutta la calma possibile.
La risposta, piatta e serafica, spiazzò Paride detto “Il Pitbull”.
“Come no?”
“Eh, scusami, ho detto no, non voglio vedere come mi picchi”
“Aaaaaazzo”, tagliò corto Paride, “ma allora vedi che sei un piccione? Allora vedi che sei un ricchione senza palle”. E mentre il nipote del super boss si apprestava a sferrare un pugno in faccia a Giovanni le note di un brano cantato da Gennarino Diana irruppero tra il nipote di sangue del superboss e la sua docile gallina ormai pronta per essere spennata. Una Smart color viola sgargiante si era accostata ai tre giovani castellani. Dalle casse dello stereo pompava ad altissimo volume l’ultimo hit del neo-melodico di Ischitella, amatissimo tra i carcerati nella casa circondariale di San Tammaro. Dalla Smart scese lentamente un giovanotto vestito di tutto punto. Indossava stivaletti Hogan con stringhe argentate, un blu jeans attillato della Richmond, una camicia di stoffa color rosa schocking con piccoli brillanti Swarovski che spuntavano dalle asole e grandi lettere nere ricamate sui polsini: SC. Le iniziali di Simmaco Cicciariello, figlio dell’attuale reggente del clan e committente della tentata strage di San Gennaro, rispettato e venerato da tutti in quanto unico erede dell’impero criminale costruito con sangue e sudore da suo padre, l’osannato mammasantissima. Intanto che si avvicinava a Paride e Giovanni, Simmaco alzò il colletto della camicia con un gesto hollywoodiano, e tutti poterono ammirare altre due stringhe nere a forma di SC.
“Embè?”, chiese con voce ferma e possente, “che succede qua?”
“OOoo Simmaco”, rispose docile Paride che sino ad allora aveva soltanto ringhiato.
“Niente, è tutto a posto. Questo canarino ha sbagliato a parlare”
“Perché”, chiese Simmaco, “che fa detto?”. Giovanni, incredulo, lo scrutò a bocca aperta. Quel ragazzo di 16 anni che già guidava una Smart era il suo compagno di classe da poco meno di una settimana, ossia da quando era stato scarcerato dal riformatorio per aver pestato a sangue un ignaro supplente che aveva osato appioppargli un due al compito di latino. I suo genitori, quella mattina, parlavano proprio di Simmaco e non volevano per nessun motivo al mondo che il loro amato figlio unico frequentasse lui e tutti i bulli della sua risma.
“Come che ha fatto?”, domandò a sé stesso Paride, “ma non lo vedi che è un piccione? Quanto è vero iddio mò gli stacco la testa a morsi”.
“Ueeeeeee”, fece Simmaco, “e non ti dare tutto stò fastidio. Ma quale piccione, non lo sai che Giovanni tiene un pesce grosso così?”, e indicò con la mano destra sull’avambraccio le dimensioni del pene del suo compagno di studi.
“Simmaco, ma sei impazzito? Questo è un ricchione senza palle”
“Paride, bello al fratello, ora basta. Io vengo dal morto e tu dici che è vivo. Ti assicuro che Ninotto c’ha un pesce grande così e mò lasciateci in pace che ci penso io a lui”. Senza battere ciglio, Giovanni guardò per l’ultima volta quella che doveva essere la sua dolce vittima sacrificale, poi sputò per terra e si mise alla guida dell’Hornet sfrecciando via a tutto gas. Quando i due lupi se ne andarono con la coda tra le gambe, Giovanni sollevò da terra la bicicletta malconcia, poi osservò Simmaco di sbieco e, abbassando la testa, sussurrò all’erede di don Pasquale Cicciariello: “Grazie…”
Simmaco grugnì, vide che i raggi della ruota si erano rotti e suggerì a Nino: “Mettila sul retro che ti accompagno io a scuola”.
Giovanni afferrò la Bmx poi smontò la ruota anteriore, aprì il portabagagli della Smart e caricò sul retro la bici. Infine, si sedette al fianco di Simmaco e per un momento si sentì forte come un leone di fronte ad un elefante addomesticato.
All’ingresso del Liceo statale, don Raffaele Tavoletta, alias “Il guardiano”, ossia il bidello più temuto da tutti i ritardatari cronici, stava per chiudere il portone centrale della scuola. Erano le nove meno cinque, ed oltre quindici minuti erano trascorsi dal limite massimo per entrare alla prima ora. Giovanni già si immaginava una ramanzina gratuita in stretto dialetto castellese. D’altronde non era certo la prima volta che si presentava fuori tempo massimo. Ma questa volta impugnava il coltello dalla parte del manico. Al suo fianco camminava spavaldo un ragazzo che calzava gli stivaletti Hogan ed una camicia color rosa sgargiante con due grandi lettere nere ricamate sui polsini: SC.
“Ciao Simmaco caro, come stai? Entra pure, prego…prego”, disse querulo don Raffaele mentre accennava un inchino con sommo stupore di Giovanni.
“Con calma, vai gioia, vai e buon Natale a te e a tutta la Famiglia”, aggiunse melenso. E allora, fianco a fianco, Simmaco e Giovanni passarono oltre le porte chiuse delle aule da cui sgusciavano stralci sonori di lezioni di latino, urla isteriche di professori in burnout e grida di alunni scatenati. I termosifoni emanavano aloni di calore artefatto e dalle finestre sbarrate con massicce inferriate filtravano bagliori sonnolenti dal mattino dell’antivigilia del Natale. Se avesse potuto scegliere una canzone come colonna sonora di quella mattinata di gloria vissuta, Giovanni avrebbe scelto Lunchbox di Marylin Manson. Chissà se Simmaco ascoltava Marylin Manson. Ma Nino con il suo pesce grosso così, preferì gettare acqua stantia sulla vampata di curiosità. Giunti sull’uscio della loro aula, la Prima D, Simmaco aprì la porta senza bussare: un privilegio riservato a pochi, forse solo a don Tavoletta ed al Preside. La professoressa di Matematica, quella cagna della Di Cerbo, si girò di scatto. Tutto si aspettava tranne che la sagoma enorme ed inquietante del rampollo de iper-boss. Se fosse entrato uno sfigato qualsiasi dei suoi discenti, l’immonda avrebbe urlato come un’ossessa e tutti si sarebbero messi a ridere. Ed invece la professoressa non battè ciglio e la classe restò muta. Simmaco si diresse verso il suo banco e Giovanni, finalmente, raggiunse la SUA agognata meta. Più di una volta, in quel dannato lunedì dell’antivigilia, ebbe paura di non farcela in tempo, di non riuscire ad incontrare LEI per l’ultima volta prima della pausa natalizia. Al solo pensiero di passare due settimane di fila senza contemplarLA, il cuore starnazzava al suolo come una papera dalle ali tarpate. Per grazia ricevuta, al termine di una travagliata mezz’ora sulle strade di Castel di Principe, Giovanni poteva finalmente contemplare la Sua bambolina di porcellana traslucida, l’azzurro vespertino delle iridi, le labbra rosa a forma di giglio che quando si schiudevano in un sorriso coloravano l’orizzonte di fucsia. Eccola, la sua unica edera in quel delirio urbano di case ammassate, radiosa come l’alba del Giorno del Giudizio e limpida come la luna che si specchia nell’acquitrino languido di un allevamento di bufale dormienti. La guardò negli occhi e telepaticamente sussurrò: “Non temere, non permetterò a nessuno di separarci. Né ai miei genitori, né a Paride Schiattone, né a don Tavoletta”. Una volta sedutosi al SUO fianco, al penultimo banco, si girò in avanti e vide Simmaco che, dopo essersi sistemato al suo posto si alzò di nuovo il colletto della camicia per mostrare alla professoressa, in segno di sfida, le due enormi SC ricamate. Poi si voltò verso il suo unico raggio di luce e le lanciò un timido, timidissimo sorriso. Infine, fece scivolare il braccio sotto il banco, e al riparo da occhi indiscreti, le prese la mano, stringendola forte in una flebile carezza. Il settimo cielo tra le sue dita. Ora, Si. Se Paride Schiattone gli avesse chiesto “vuoi vedere come ti taglio la testa?” Gianni il piccione avrebbe risposto “Si, fai pure...
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