sabato 27 dicembre 2008

"Ex ex, Aleex"


Disteso sul letto, immobile, giaccio senza energie né fiato (tutto è silenzio) e il niente è inquiete. Il bianco gracile dell’armadio s’immerge nello sfondo nero del poster di Amedeo Pace che martella il Music Man Stingray a quattro corde metro. Fisso il soffitto muto, schiacciato dal peso di un assillo chiamato pensiero, e avverto dentro di me spirali=vortici di insidie, vento che soffia violento intorno e turbini di insidie. Sarà perché salto al buio da una bugia all’altra ed alle volte perdo l’equilibrio. Sarà perché ora, rinchiuso nella mia camera oscura, inietto di continuo aria tesa nei polmoni chiusi. O forse perché anche oggi che è l’ante vigilia di Natale ho mentito. Di nuovo: ancora una volta ho scelto la Mistificazione. Lo so, è importante ripetere a memoria rosa, rosae, rosam eppure non ci riesco, mi rifiuto, mi si annebbia il cervello, come se le sinapsi si rimpicciolissero, sempre più minuscole, tanto minime da non percepire neppure l’escatologia di un dittongo. Non ho mai sopportato il De Bello Gallico, le Metamorfosi di Ovidio, l’incipit del Trimalcione e questa mattina ho incassato un due spaccato all’ultimo compito in classe del primo quadrimestre. Un disastro, l’ennesimo. Non so se quest’anno riuscirò ad essere promosso, non credo visto l’andazzo generale. Storia, matematica, latino, fisica: è una catastrofe.
Quando sono tornato a casa per pranzare, non ho potuto fare altro che rigurgitare il mio conato quotidiano di falsità. E’ stato un attimo, solo pochi secondi, giusto il tempo di poggiare lo zaino dell’Invicta sul divano di damasco all’ingresso, percorrere il corridoio a testa bassa, affacciarmi in cucina e salutarla. Lei che, smagnetizzandosi, si stacca dal Bibi Gas e poi mi fa: “Allora come è andato il compito di latino?”. Si pulisce le mani sporche di sugo strofinandole sui bordi del grembiule e sgrana un sorriso dietro al quale tenta maldestramente di celare la sua ansia di mammifera. Avverto limpido il battito industrial hard-core del suo cuore, lo sento forte e chiaro e mi accorgo che il castello di sabbia sta per crollare.
Disteso sul letto immobile, giaccio senza energie né fiato (tutto è inquiete) e una vampata improvvisa spunta come un melanoma sulla pelle. Fa caldo e tiro via la t-shirt. Ecco, ora a petto nudo respiro meglio. Ci vorrebbe una sigaretta ma fumare in camera non si può, lei non vuole. E’ tardi, troppo tardi per tornare indietro. Ed io già sono in ritardo, o forse in anticipo, non lo so, non vedo nessun traguardo. Guardo fisso il soffitto e provo così a scacciare via i rimorsi. Ho voglia di urlare, dannazione, scardinare le ante del guardaroba, stracciare le camice appena stirate, prendere a calci la scarpiera. Bestemmio ad alta voce e mi alzo di scatto dal letto slanciandomi col torso in avanti; già va meglio, in verticale è tutto meno angosciante. Dovrei studiare ed invece passeggio nervoso nel vicolo cieco della mia stanza disadorna. Sulla scrivania i tappi delle penne mordicchiati, le orecchie sulle pagine scarabocchiate del quadernone, il libro di matematica è aperto, a pagina 26, sempre la stessa ormai da giorni. Sulla destra il romanzo “L’altra Agata” di Carla D’Alessio comprato alla Feltrinelli in via Roma. Forse ci vorrebbe solo un po’ di musica, di leggere ancora come un clandestino non mi va. La sedia è scomoda, nel cielo grigio le polveri bianche, uno strano formicolio all’inguine. Tra gli sgorbi a penna, una vaga forma fallica. E così penso per un battito di mani al giornaletto porno che nascondo sotto la scarpiera. Nessuno sa che è lì, nemmeno Lei. Riecccola ancora, dannazione. Penso a Lei, alle mani sporche di sugo nel chiaroscuro della sua ansia e la libido scompare. Resta solo il peso specifico nell’immateriale, la gogna alla gola, i calcinacci decadenti di un’altra menzogna. Sono in trappola, devo distrarmi, pensare a qualcosa di piacevole e subito. Ma certo, ci sono, la musica. Interpol, o Ally Pally o C'Mere. Cerco il compact disc. C’ero anche io a Caserta, in via Medaglie d’Oro allo Stadio Pinto quando suonarono insieme ai Blond Redhead. Cerco ancora il cd. Ricordo come se fosse ora ed immagino me stesso sul palco dello Stadio Pinto. Ballo con Kazu Makino, mentre lei sia lancia nell’ultimo assolo vocale di Ally Pally. Cd trovato: ora accendo lo stero e lo metto a cucinare. La guardo tra gli squarci degli occhi a mandorla. Lei danza avvolta nel suo vestitino bianco con le stringhe verdi sulla schiena nuda. Balliamo insieme al ritmo di “In particular” e le luci stroboscopiche montate sul palco del Pinto mi squarciano le pupille. Sono felice, finalmente, felice. Dio com’è sexy Kazu Makino quando ondeggia come una sciamana, scrollando la testa a destra e a sinistra per poi volteggiare su se stessa mentre una fluida chioma castana le travolge il volto pallido e madido di sudore. Si, siamo soli io e lei sul palco ed ora non mi vergogno più di nulla. Sono io, siamo soli io e lei davanti a ventimila cenciosi che mi invidiano. Davanti a me Kazu Makino, la vedo, la sento, l’ammiro. All’improvviso, dopo aver smesso di cantare, lei mi passa una sigaretta. Le nostre mani si sfiorano. Mi eccito e subito riaffiora alla mente il giornaletto porno nascosto sotto la scarpiera. Al diavolo il compito di latino, il Bibi Gas, il cenone di Natale. Afferro la rivista patinata, la sfoglio con foga. Ci sono set fotografici con Jill Kelly, Christy Canion, Jenna Jameson, Nici Sterling, Celeste, Chasey Laine e poi la mia preferita, Asia Carrera, che indossa un vestito bianco con le stringe verdi sulla schiena. A pagina 26, anche lei con gli occhi a mandorla come Kazu Mikino. Anche lei è mia e solo mia.

Mignottocrazia

Che lurida baldracca. Se pensa di essere chic con quei minuscoli orecchini di perle, si sbaglia di grosso. Si crede la prima della classe. Tenta di darsi un tono professionale, con quel tailleur azzurro, il lipstick rosa ed il caschetto sbilenco che incornicia il volto allampadato. E’ solo una gatta morta, anche se, lo ammetto, il suo decoltè è un Caravaggio. Magnetico grappolo di tenere carni. E che dire degli occhioni enormi, neri come il fumo che sprigiona un copertone in fiamme. Ma guardatela, sta leggendo Milano Finanza. Ed io che sono Tammaro Costantino, Sottosegretario al Tesoro, quasi me la rido. So perchè è qui al mio fianco, a 34 anni. C’è un motivo: lavora bene di bocca. Il Capo del Governo d’Italia, il Sommo, l’Insuperabile, ormai non parla d’altro. Anche due sere fa, al party in casa Andreotti, mentre l’ensamble di Bahia suonava una macumba, ha spifferato a tutti il solito aneddoto porno-soft. Dice che nessun’altra è in grado di farglielo venir su tanto duro. Niente coca, niente viagra, niente di niente eccetto la carne viscosa delle sue grandi labbra. E’ qui al mio fianco solo ed esclusivamente per questo. Mai una campagna elettorale, mai un consiglio comunale. Ed ora, si dice, sta per convincere il Masto a candidarla per le Regionali in Campania. Figuriamoci: la Regione dove ho conquistato il maggior numero di preferenze in assoluto alle ultime elezioni. La Campania dove sono gran cerimoniere e umile inserviente. Eppure, per quanto sia una valletta in carriera, non è l’unico sedicente onorevole che siede in quest’assise. Prendi ad esempio, quell’altra, quella lì, in fondo a tutto. Ostenta il crocifisso d’oro che le sbuca dalla camicetta lillà. Indossa occhialini neri da maestrina di Casapesenna. I capelli vaporosi sono di un castano smunto. E’ Ministro della Pubblica Istruzione. Non ci credo: Ministro della Pubblica istruzione una che nel suo curriculum vanta una decennale amicizia con il giardiniere del Presidente del Consiglio ed una sorella nei cobas della scuola. Siamo messi male, proprio male. Per non parlare di quel nibelungo alla sua destra, un leghista duro e puro. Tre anni fa mi chiamava terrone, ora quasi mi bacia le mani. Senza il mio assenso il federalismo fiscale salta. Puffff, scompare. Ora, i nostri sguardi si incrociano e subito mi rifila un sorriso smargiasso. E’ rubizzo, traccagno, impossessato dal Dio Pò. Si dice pratichi sesso sadomaso nei night-club di Bustarsizio. Patetica polenta veneta. Pare che sia un ottimo chirurgo. Sarà: comunque, meno male che c’è lei. La puttana della terza repubblica: almeno non provaca danni alla vista. Me la ricordo ancora quando scodinzolava su Rete 4 con i tacchi a spillo e la minigonna di letex lucido. Sbircio ogni suo movimento da ex Signorina Pon pon, ma poi vado oltre.Alla sua destra c’è il fido mastino del Duce, ora Ministro della difesa. Poi l’onorevole massone, e quell’ex picchiatore fascista delegato all’assemblea dell’Onu. Tutti al loro posto nella sala del Consiglio dei Ministri. Fa un caldo boia qui dentro, o forse è la scollatura di Mara a farmi alzare la pressione. Le pareti dell’aula di Palazzo Chigi tappezzate con damaschi rossi di San Leucio. Gli infissi spalancati delle finestre che affacciano su via del Corso, un leggero brusio in sottofondo. Prima che la riunione abbia inizio, provo a pensare ad altro ma non ci riesco. E più forte di me. La vorrei seppellire in una campagna a Villa Literno. Il suo decoltè mi ossessiona. Alle volte, quando mi eccito troppo, per evitare strani rigonfiamenti, ammiro Sandro in tutto il suo pallore. Eccolo. Lo vedo: l’ex responsabile dell’ufficio propaganda del Partito Comunista, l’attuale Ministro della cultura. Contempla di continuo il grande capo, rapito. Ha occhi solo per lui. Ogni tanto si morde le labbra, come se stesse spiando una donna nuda. Tutti sanno che è gay, e non si capisce perchè il Premier lo abbia scelto. E chi lo sa, il Rais è imperscrutabile. Mai contraddirlo, per carità, mai mettersi di traverso. So quanto si rischia a tirarlo per la giacchetta. Così come so quanto sia pericoloso sbirciare il decoltè della sua preferita. Altrochè: la sua vulva di confetto, viva ceramica di Maiori, calda e fresca. Guardo Mara ancora una volta. E lei se ne accorge, si gira verso di me, mi mette a fuoco ed accenna un piccolo sorriso pudico, di mera cortesia. Automatico. Io sono originario di Castel di Principe, lei del Vomero di Napoli. Io sono il Sottosegretario del Tesoro, lei la Ministra delle Pari Opportunità. Io voglio candidarmi alle prossime elezioni regionali: lei pure. E sa giocare sporco, molto sporco. E io lo so. E oggi si discute proprio di misure straordinarie contro l’emergenza criminalità in Campania. O meglio, in Terra di Lavoro. Nella terra dei mazzoni. Nella mia Castel di Principe. Che lurida baldracca.


Ecco, fermi tutti. Il Magnifico ha testè terminato di inciuciare con il ministro dell’Attuazione del Programma ed ora aziona pure il microfono. Già so tutto. Conosco il suo discorso quasi a memoria. E ho avvertito chi di dovere. Che noia. E’ una pagliacciata, una perdita di tempo. Avrei di meglio da fare, un’intera Regione da conquistare. Peccato. Ora non posso. Sono qui, a Palazzo Chigi. Ed il suo accento milanese mi lacera i timpani. Si schiarisce la gola, gonfia il petto come un pavone, indossa una maschera da decisionista e da ora in poi tutti i suoni emessi dalle sue corde vocali saranno Vangelo: «Onorevoli ministri, diamo inizio alla riunione». Silenzio, persino le lingue la smettano di lubrificare natiche. «E' da tempo che io mi chiedo: come purificare una volta e per tutte quella cloaca di criminali nota come Castel di Principe? Come voi sapete, stiamo parlando di un piccolo paesotto dell’agro aversano dove risiedono 9356 anime, di cui 1000 circa in carcere al 41 bis ed altre 1500 ai domiciliari. Un caotico agglomerato urbano che pullula di banditi ed assassini»... Sentitelo, dio mio, sentitelo... «Sin dai tempi dei latini, questa terra era abitata da gente che veniva chiamata latrones. Cari colleghi: attualmente, nell’elenco dei cento latitanti più pericolosi d’Italia, si contano ben 39 cittadini castellesi. Per caso mi sbaglio, signor ministro degli Interni?»... Scuote la testa, il super poliziotto, scuote pure la testa... «Onorevoli, consentitemi di ricordarvi che solo negli ultimi due mesi abbiamo assistito impotenti a 78 omicidi, 12 lupare bianche e sei attentati con il tritolo. Una Caserma dei Carabinieri, come voi sapete, è stata distrutta. Un anno fa abbiamo inviato sul posto 500 parà della Folgore, grazie ai buoni uffici del Ministro La Mussa. Da allora, ventidue poliziotti ed otto militari dell’arma sono stati massacrati a colpi di kalashnikov. Ma la sete di sangue di questi delinquenti indefessi non si è placata. Anzi. La belva è più affamata che mai. E’ giunto il momento di porre fine a questa razza malsana. A mali estremi, estremi rimedi»... Si, venite, venite. Con la Marina, la Legione Straniera. Uccideteci tutti, uno ad uno. A vista. Siamo tutti castellesi, tutti, anche voi, anche il vostro Grande Capo. Solo che ora due tette di rugiada gli annebbiano l’intelletto... «So benissimo, che il Sottosegretario al Tesoro, l’onorevole Tammaro Costantino, la pensa come me»... Annuisco, certo che è così, certo... «Perchè lui, cari Ministri, ama la sua terra più di ogni altra cosa al mondo. Ed oggi siamo qui riuniti per sconfiggere l’esercito del male accampatosi a Castel di Principe. Oggi, siamo qui per vagliare due ipotesi operative entrambe a me care, come lo sono al mio amico Tammaro. La prima è quella proposta dal ministro degli Interni»... Momento suspense, vorrei una P38... «Si tratta di una massiccia campagna di castrazione chimica a base di Depo-Provera, con richiami settimanali per tutti gli uomini in età fertile. Trattasi, illustrissimi colleghi, di un farmaco che provoca una riduzione massiccia dei livelli di testosterone»... Che boutade, c’è di meglio, sono sicuro, proporranno di meglio... «In tal modo, i figli maschi di quella terra infetta dallo sperma del diavolo non daranno più i natali ad altri papponi ed estorsori. Altri farabutti e sanguinari come i loro padri. Ancora altri spregevoli bufalari come i loro nonni. Certo, qualche associazione umanitaria o i soliti comunisti ancora in vita potrebbero indignarsi e a manifestare in piazza. Ma il Paese richiede misure drastiche per porre fine a questa piaga d’Egitto e noi dobbiamo agire con la massima determinazione»... Tutti applaudono, tranne io. Anche Mara applaude, come una foca addomesticata... «Onorevoli colleghi, sia ben chiaro. Non siamo qui per vendicare Norberto Saviano o il giudice Catone, uccisi sei mesi fa da un commando di killer mai identificati»... Qualcuno si schiarisce la gola, qualcun altro tossisce... «Ma siamo qui per contrastare il potere di un clan che è diventato Anti-stato, e che estende i suoi tentacoli in ogni angolo d’Italia. Persino ad Arcore, sono arrivati, questi pazzi criminali»... Brusio di indignazione, mentre i leghisti sghignazzano come iene... «Una settimana fa hanno detto al mio giardiniere che volevano i soldi per sostenere le famiglie dei carcerati. Ora basta. Signori, noi siamo qui per porre fine alle barbarie: la castrazione chimica è solo un’ ipotesi. Non certo la più efficace, di sicuro la meno economica»... Meraviglia e stupore in sala, ma io so già tutto. E resto impassibile... «C’è di meglio. In verità, il Ministro della Difesa, nelle ultime, drammatiche ore, mi ha proposto una soluzione finale molto più efficace». Credetegli, bacucchi, molto più efficace.. «Ma sta a voi decidere e votare. Pertanto, passo la parola al ministro della Difesa, onorevole La Mussa».


ATTENTI!!! La Mussa si alza di scatto dalla sua sedia Silvio IV e con passo marziale si dirige verso il proiettore che sta in fondo alla sala del Consiglio dei Ministri. Come un barone universitario si appresta a commentare le diapositive sulla soluzione finale. C’è un non so che di mefistofelico nei suoi occhi strabuzzanti. Il pizzetto alla Balbo lo rende simile ad un caprone da Saba, di quelli raffigurati da Goya nella Quinta del Sordo. Ed il mento sporgente contribuisce a rendere il suo ovale ancor più luciferino. Quando sorride, quelle rare volte, digrigna i denti come un mastino. Se non fosse stato per l’intenso azzurro delle sue iridi, sarebbe stato la copia perfetta dell’uomo nero che invocava mia madre quando ero bambino solo per il gusto di terrorizzarmi. Lo seguo a stento. E’ un mezz’uomo. Un sacco pieno di ceneri industriali. Un piccolo pesce da cannuccia.«Onorevoli colleghi, abbiamo provato in tutti i modi ad estirpare le erbacce»,,, gracchia con la sua voce incartapecorita mentre la giugulare quasi scoppia,,, «Con le cattive, ossia inviando centinaia di agenti e l’intelligence dei servizi segreti. Con le buone, e cioè aprendo scuole e fabbriche che avrebbero dovuto assumere solo gente del posto. Ma tutti gli sforzi sono stati vani. Perché in quelle terre il male è perenne. Ad oggi, non è stato ancora trovato un rimedio efficace. Sembra quasi di rivivere i giorni terribili dell’emergenza rifiuti. E qui abbiamo con noi, l’onorevole Costantino che ricorderà di sicuro quei giorni di passione e martirio anche per noi classe dirigente».Testa di cianfrotta senza sale, lurido capitolino arraffone, belzebù da mercato del pesce, penso tra me e me mentre annuisco automaticamente. Che ne sai tu dell’emergenza rifiuti, come la chiamavano gli stolti. Che ne sai tu dell’inceneritore di San Tammaro e del Cdr di Santa Maria Capua Vetere. Grazie a me, è nata una nuova borghesia campana, ricca e prospera come se fossimo tornati ai tempi dei borboni. Voi svenivate per i miasmi, io ed altri ci siamo tappati il naso e nel frattempo soldi a catinelle. E’ stato il più grande affare di tutti i tempi, un business irripetibile. E lo sa bene anche il Grande Capo che ti ha tirato fuori dalle fogne, e tu, stupido Ministro da quattro soldi che parli ancora di iattura...parla, parla prima che ti strangoli con una corda per provoloni. «...Ebbene, onorevoli colleghi, io le ricordo quelle scene terribili in Tv. Interi quartieri coperti di immondizia. Discariche piene e scuole chiuse. Poi, quando i cumuli diventavano giganteschi, e nessuno poteva più tollerare quello scempio, la gente dava loro fuoco. Ecco, così faremo noi con i castellesi. Si, solo con il ferro e con le fiamme la stirpe immonda verrà spazzata via una volta e per sempre». Le luci si spengono e poi il ministro aziona il proiettore. Sul telone bianco srotolato sopra la testa del Grande capo, appaiono le immagini di un ordigno. Bomba Wp, recita una didascalia. Non è uno scherzo e lo sapevo dal primo momento. Ecco perchè la mia attenzione viene catturata dal sobbalzo felino di Mara che si incammina nella sala del consiglio dei Ministri avvolta dalla penombra. Con passo felpato, a testa bassa, giunge sino allo scranno dell’Immarcescibile. Si siede addirittura al suo fianco, quale onore. Quale ostentazione di potere. Ora li osservo parlottare tra di loro, nascosti da un’oscurità leggiadra. Lui serra le labbra sornione. Il riverbero del fascio di luce emanato dal proiettore mi svela l’arcano. E mentre gli altri onorevoli colleghi ammirano i prodigi della Wp, io seguo il braccio destro di lei che si muove lentamente, molto lentamente, dall’alto in basso, s’alza e scende. Ma guardatela, la ministra delle Pari Opportunità con delega alla Famiglia. Altro che: questa è una mignottocrazia. Che squallore. Nulla a che fare con i rifugi sottoterra dove ho passato ore ed ore con lo Zio. Lì ho imparato che la vita non vale nulla se non l’afferri per la gola. Li ho imparato a non desiderare niente. A non essere nessuno, se non parte di una grande fratellanza. Loro pensano di distrugge ogni cosa. Poveri illusi. La Mussa blatera ancora. «La Wp, onorevoli colleghi, altro non è che una bomba al fosforo bianco, come quelle utilizzate dagli americani a Falluja o dagli Iracheni in Iran». I ministri leghisti fissano con interesse le diapositive dei resti umani polverizzati dal fosforo. Mara continua a stantuffare. Io sbadiglio. «Essa, crea una nube di pentossido di fosforo che si tramuta in acido pirofosforico. In pratica, uomini e animali, verranno arsi vivi, mentre le case e le strutture resteranno intatte. Secondo i miei calcoli, sono sufficienti appena dieci ordigni per porre fine a questo dominio barbarico. Ne abbiamo scorte enormi, che ci sono state donate dall’America dopo il ritiro dal Medio Oriente. Visto che sono in nostro possesso, perchè non usarle contro i nostri nemici? Perchè non usarle per spazzare via la razza infame dei castellesi?»,,,brutto scimpanzè, guarda come si sta esaltando, è impressionante, sta andando in fiamme,,, «Basta con i moralismi. Siamo già in guerra. Ministri del Governo Italiano, ne sono certo: anche l’Unione Europea capirà. E se così non fosse, vedremo quale balla inventarci per rabbonire quei tecnocrati panzuti di Bruxelles. Qualcosa tipo Ustica»...Ridono tutti, qualche leghista si stropiccia le mani giulivo.. «Ripeto, colleghi: solo dieci bombe Wp ed il clan più sanguinario della storia verrà spazzato via. Onorevoli, la PATRIA ci sarà grata. Per sempre». Si riaccendono le luci, tutti i ministri applaudono infoiati mentre Mara, seduta alla sinistra di Sua Enormità, con discrezione, a testa bassa, si asciuga le dita della mano con un kleenex. Ha le gote in fiamme, i capelli mossi. Un sorriso da Gioconda. S’è guadagnata la giornata. Ecco, ha timbrato il cartellino. E’ solo una baldracca. E pensare che io, mister 89mila preferenze, mi ritrovo al suo fianco nella foto ufficiale del Governo. E’ questa la mignottocrazia, e ora siamo qui riuniti per decidere se distruggere o meno con il Fosforo Bianco il mio paese natale, uno dei miei feudi elettorali. Mi faccio due conti. Come se non l’avessi capito che il vero obiettivo da colpire sono io. Come se non l’avessi capito che la vera ispiratrice di questa strategia è lei, la preferita del capo. Anche lei vuole alla Presidenza della Regione. Il Grande Capo pensa che sparate alla Saddam Hussein fermeranno la mia ambizione politica? Davvero si illude che annientando i castellesi scomparirà anche la mia forza elettorale? Si sbaglia di grosso. Mhaaa, per qullo che mi importa. Distruggano pure Castel di Principe. Anzi, meglio così. La finiranno di scrivere stupidaggini sui giornali. La smetteranno di chiamarmi il «ministro della Camorra». Tempo due mesi e ritorneremo più agguerriti di prima. Stiamo discutendo di un falso problema. Stiamo perdendo altro tempo. I problemi reali dell’Italia sono altri. Hanno un decoltè da pin up e mani affusolate come quelle di Mara.

La (tentata) strage di San Gennaro


Due strisce di polvere bianca sul piano lucido. Roba buona, assai potente. Non come quella che si vende al calar delle tenebre in via dei Diavoli. I nigeriani la mischiano con la lidocaina: ecco perchè i tossici smascellano quando ne sniffano troppa. Peppe, detto “o’ Cecat”, tagliuzza, smista ed allinea la coca in piccole piste parallele, aiutandosi con il santino di San Castrese, osannato patrono di Castel di Principe. Poi china il capo, infila nella narice sinistra una banconota arrotolata da cento euro e via... SSBAAAAAMMM …Una vampata sismica di adrenalina, il cuore che si liquefa nel torace ed evapora mentre il diaframma va in tilt. Peppe si stropiccia con foga la punta del naso. Deglutisce e massaggia con la lingua il palato, scuote e rotea la testa come un pugile colpito da un uppercut. Ancora un altro giro di walzer e...SABAAAAMMM….Ora si crede Annibale in mezzo ai romani, invincibile, possente. Con la punta del mignolo raccoglie i microgranuli di cocaina sparsi su tavolo di rovere massello e poi si strofina le gengive. E’ un leone alato dai muscoli di giaguaro. Afferra la pettorina dei Carabinieri piegata sullo schienale della sedia di plastica e la indossa mentre si osserva nello specchio a muro. “O’ Cecat” si morde le labbra e raddrizza la benda di tela che protegge l’occhio sinistro, retaggio di un intervento in una clinica di Pavia per una grave patologia retinica. Sei ore dopo l’operazione, nottetempo, la fuga. Sono passati otto mesi, ed ora che è di nuovo latitante Peppe ha trovato rifugio in un villino sperduto ad Ischitella. Inforca gli occhiali scuri alla Blues Brothers, infilza giubbotto di volo U.S. Navy in simil-pelle nera. Solleva il materasso con una mano e con l’altra agguanta la sua inseparabile compagna di mala-vita: una Smith & Wesson Magnum 357. Con lei in pugno, la sua volontà di potenza diventa Apocalisse. Ogni volta che il palmo stringe quel manico dentellato, Peppe avverte una placida sensazione di onnipotenza. Ama il luccichio dei bossoli calibro 38 special, il tonfo strozzato degli spari, il piacevole rimbrotto del rinculo. Distrattamente sbircia la foto di sua moglie in una cornice appesa a sinistra dello specchio. Le aveva inviato un pizzino: quella sera non sarebbe tornato a casa e, forse, si sarebbe trattenuto fuori almeno per una settimana. Ora Peppe è pronto e si avvia verso la porta. Nella stanza disadorna, oltre al letto, al tavolo Art Decò ed alla sedia comprata all’Ipercoop, un Pinguino Delonghi arrugginito. Ritagli di articoli di un settimanale che riporta a tutta pagina un’intervista al giudice Catone. La prima pagina del “Corriere dei Latrones” con la foto del colonnello dei Carabinieri Bugo ed un titolo a sette colonne: “O' Cecat ha i minuti contati: lo prenderemo”. Qualche piatto sudicio sul pavimento e pezzi di aragosta spolpata nel cestino. Giuseppe spegne la luce, gira il pomello ed esce. Stasera nessuno, a Castel di Principe, ha il diritto di continuare a vivere.



Inutili invertebrati dalla pelle nera. Puzzano, urlano e praticano arcani riti woo-doo. Peppe li ha sempre odiati. Sin da bambino. Ricorda ogni particolare come se fosse ieri. Estate 1989, ghetto di Villa Literno. Baracche di lamiera in fila indiana, bacinelle blu piene d’acqua putrida, teloni di plastica trasparente straziati dal vento. Tra le mani la sua prima molotov. Un panno da cucina come stoppino. Poi la scintilla dello zippo. Il crepitio di una bottiglia che si infrange. Il fuoco, le urla, l’odore acre di bruciato. Scampoli di un’adolescenza violenta a Castel di Principe, tra bufale e Mercedes Benz. Da quel luglio di 19 anni fa, Peppe ne aveva fatta di strada, tutta di corsa. Ogni contrada del paese lo rispettava. Quando camminava in piazza Villa gli anziani fuori ai circoli, giravano la testa altrove. Tutti temevano il suo sguardo e la sua rabbia. Anche perchè o’ Cecat prendeva ordini da Zio Cicciotto in persona. E l’ultima direttiva era: sparare agli africani. Manichini di nulla mescolato al niente. Lo Zio era stato di poche parole. Colpirne uno per educarne cento. Far capire loro che era giunto il tempo di andare via, di ripercorrere a nuoto il Mediterraneo. Si trattava di un favore per Don Cristofaro Luigi Copposerta. Dopo anni di trattative il Don aveva raggiunto un’intesa con il Comune e la Regione: un accordo di programma per realizzare un maxi resort a sette stelle con annesso campo da golf a 24 buche, piscina olimpionica di acque termali più un porticciolo per l’attracco degli Yatch. Un’oasi di svago e verde artefatto che sarebbe piaciuta tanto agli americani della Nato, dal 1945 clienti fissi di don Copposerta. Ma quei luridi ominidi intralciavano il suo sogno di cemento armato. Troppi spacciatori, troppe prostitute, troppi straccioni a Castel di Principe. Una bella disinfestazione umana, ecco quello che voleva Copposerta, padrino di battesimo del terzogenito dello Zio. Il don aveva già pagato in contanti. Due valige piene di mazzette da cento euro. Peppe le aveva viste con il suo unico occhio malconcio. Così come ora vede una Fiat Marea grigio metallizzata parcheggiata fuori al cancello del suo villino. O’ Cecat, con passo rapido raggiunge la vettura dai vetri oscurati. Apre la maniglia dello sportello anteriore destro e si siede di fianco del conducente. All’interno ci sono tutti i suoi uomini. Li ha scelti lui, uno ad uno. Si fida di loro. Hanno sparato con lo stesso mitragliatore Uzi, si sono divisi pasta di eroina e ballerine brasiliane. Alla sua sinistra, con le mani sul volante, c’è Oreste Portoghese, che sembra un tronista di Uomini e Donne. Veste solo completi griffati Dolce e Gabbana. Fino a qualche anno fa sbarcava il lunario lavorando come custode dei viali privati lungo Corso Lenin. Adesso è un narciso che sboccia alla luce di una lampada abbronzante, una pianta carnivora affamata di soldi. Piccoli difetti di un ragazzo di strada in procinto di diventare un vero camorrista. Seduto sul sedile posteriore c’è Alessandro Birillo, detto “o’ Tenente”. In un’altra vita sarebbe stato un ottimo parà della Folgore, un soldato col coraggio di un mujaiddin ed il sangue freddo di un Marine. Anche Pasquale Murgias era un uomo di azione. Figlio di ricchi allevatori bufalini, amante delle lucciole nigeriane e fervente cattolico. Dopo ogni omicidio Pasquale si faceva sempre il segno della croce. Il boss saluta con un cenno della testa i suoi scagnozzi. I loro volti sono statue di sale. Solo Oreste, che è il più giovane, mastica con furia una big bubble. Ed è proprio a lui che Peppe dedica un lungo sguardo indagatore. Lo scruta, lo invade, lo sviscera. Al di là della benda, si chiede se quel ragazzo dai capelli cotonati e le sopracciglia limate sia in grado di sparare con il kalashnikov. Peppe si domanda se l’indice di Oreste tremerà prima di spingere il grilletto. Quesiti invisibili che barcollano nel suo ipotalamo. Non è il momento di spargere dubbi. Ciak, si gira e basta.



Per strada non un’anima viva. Al tramonto vige una sorta di coprifuoco. Gli indigeni di giorno, e i neri di notte. La loro vita, ora, pesa nove grammi di piombo. Ai cigli della strada, scorrono lenti cassonetti dell’immondizia bruciati. Oltre il lungo muro di cinta sovrastato dal filo spinato, scheletri di pini mediterranei che offrono riparo ai tossici di tutta la Campania. Nelle piazzole di sosta materassi intrisi di urina, divorati dai tarli. Le finestre delle villette che si affacciano sulla Statale sono tutte chiuse, sbarrate. Un bastardino randagio dal pelo bianco, zoppicando, caracolla. All’interno della Fiat Marea che sfreccia a ottanta all’ora verso Castel di Principe, nessuno parla. Tra di loro aleggia la radiocronaca della terza giornata di campionato serie A, il Big Match al San Paolo. In sottofondo le urla di 76mila tifosi del Napoli di Hamsik e de “El Pocho” contro i miagolii di quattro gatti spellacchiati al seguito della Juventus orfana di Luciano Moggi. I celerini sotto la curva B, i caffè borghetti, i Mastiffs. Tutti, da Napoli a Caserta, come ipnotizzati guardano la partita in Tv. La serata ideale per eseguire l’ordine di morte impartito da Zio Cicciotto. Il Padrino vuole un’azione punitiva, come non se ne erano mai viste prima. Una strage, un bagno di sangue, un segnale inequivocabile per tutti i neri di Castel di Principe. Perché per i morti ammazzati una notte in obitorio, l’esame autoptico, una Messa solenne e niente più pensieri: i nuovi guai sono sempre per i vivi che non hanno ancora assaggiato i bossoli della 357 magnum. Sono loro i veri destinatari del messaggio di Don Copposerta, dello Zio e di Peppe o’ Cecat. Via, fuggite via, IATEVENNE.



“El Pocho, guizzo sulla fascia destra, cross in area di rigore, l’aggancio di Hamsik, la difesa juventina circonda Hamsik, Hamsik si smarca. Spettacolo signori… la palla a Zalajeta. Zalajeta, signori, Zalajeta...pallonetto...siiiiiii...è GOOOOOOOOOOLLLL. E’ GOL GOL GOL...”
Peppe tira forte col naso, inarca le labbra e disegna nel fragore delle onde radio un aborto di sorriso. “Nu cuntacchid bedd asseje allimmen u tenimm” (“almeno un nero che serve esiste”). Nel retro della Fiat Croma grigio metallizzato, Alessandro e Pasquale non battono ciglio mentre osservano la Domitiana che scorre fluida come un rivolo dei Regi Lagni. La tensione è un cappio ad ogni nervo, e non c’è tempo per esultare. Solo Oreste sghignazza alla battuta del “Cecato”. E’ poco più che un moschillo: Peppe lo sa e torna con la mente al sacco di yuta nascosto sotto la ruota di scorta all’interno del portabagagli. Lì ci sono due kalashnikov da poco importati dalla Serbia, grazie ai buoni uffici di Amir l’albanese. I fucili, tempo fa, erano stati collaudati dalle Tigri di Arkan ed ora avrebbero servito solo un’altra tigre: una belva con i canini di sciabola, il pelo lucido ed una benda all’occhio. Una tigre di Castel di Principe che adesso scruta la strada in cerca della preda. “Ei bbi lok, oiii” (“eccoli, finalmente”). Con un piccolo cenno del capo, Peppe indica tre neri nei pressi di una sottospecie di negozio dall’impronunciabile nome africano distante poco più di cinquanta metri. Oreste afferra l’input al volo, decelera e procede a 20 all’ora. Sono delle iene in agguato, e prima dell’assalto finale studiano la selvaggina, le sue mosse, le sue pulsioni. I colored parlano tra di loro e si sganasciano dalle risate. Il megero al centro della cricca, forse, sta raccontando qualcosa di divertente. Il cantastorie africano indossa una bandana a stelle e strisce come quei rappers grassi e goffi che scimmiottano su Mtv. Per Peppe, quelle palle di lardo nero saltellanti, piene di catene d’oro e di anelli luccicanti, rappresentano una sorta di devolution del genere umano. Credono di essere dei duri, dei gangster. Il suo volto si contorce in un’impercettibile smorfia di disgusto, tira su forte con il naso per un’ultima volta. Serra le labbra con rabbia e ordina: “Iettme!” (“andiamo!”). Una scossa di adrenalina spazza via la nebbia dai cervelli soffritti dalla cocaina. I quattro caval leggeri dell’Apocalisse aggrottano la fronte. L’ordine di morte giunge sibillino ai loro timpani ancora frastornati dal clamore stereofonico che insegue – simile al tuono dopo il lampo - il goal di Zalajeta. Domani mattina sui giornali o al Tg, la strage di San Gennaro verrò descritta come un “dopo”, un dato di fatto, una missione compiuta. Eppure, c’è sempre un “prima” che sfugge al grande pubblico morboso. Ed è quell’istante di lucida follia che O’ Cecat ed i suoi scagnozzi stanno assaporando. E’ il fuoco dell’ultimo barlume di umanità che brucia nei loro sguardi vitrei. Nel chiuso della Fiat Croma con i finestrini oscurati, Peppe, Oreste, Alessandro e Pasquale tastano con le mani le pistole come se fossero degli ex voto. Una 357 magnum, una P38, una Red Scorpion, una Beretta calibro nove. Quattro pappaghene pronte a cantare una dolce polifonia di piombo la cui eco sconvolgerà il mondo.



Una sterzata fulminea e la Fiat Marea s’incunea nel piazzale di cemento antistante la sartoria dallo strano nome africano. La luce che irradia l’insegna del negozio sguazza sull’asfalto. Sull’uscio della “Ob ob Sibarì Fashion” tre uomini di colore parlottano concitati. Il vatusso che sta al centro della cricca si chiama Stephen, viene da Accra, è il terzo di sei fratelli e per sopravvivere a Castel di Principe si è reinventato sarto. L’altro fa di nome Yeboah, lavora nei campi di pomodoro a Villa Literno, venti euro a giornata e una settimana fa il caporale non l’ha neanche pagato. Eppure, ora che si ritrova con gli amici, con appena 50 cents in tasca, si sbellica dalle risate. Così come ride di gusto anche Sunny, ingegnere al servizio dell’Industria Petrolifera Nigeriana prima che i ribelli del Delta del Niger prendessero il sopravvento. Stephen racconta di quando accompagnò in Questura John Godpower, un pazzo furioso ma inoffensivo che credeva di essere il profeta Isaia. Quel giorno doveva semplicemente ritirare il permesso di soggiorno, ed il poliziotto che gli passò la penna sotto il vetro dello sportello gli intimò di firmare il suo agognato documento. John, spaesato, uscì dall’ufficio immigrazione di corsa e chiamò Stephen per chiedergli, balbettando, a cosa servisse quello strano affare che gli aveva passato il Brigadiere. E mentre Stephen imita l’espressione di quel togolese barbuto che si credeva il profeta Isaia, uno stridio tenue di ruote che sgommano sull’asfalto attira la sua attenzione. Le portiere della vettura si aprono all’unisono. Quattro uomini bianchi torvi in volto scendono dalla macchina. Indossano delle pettorine blu con su scritto a caratteri cubitali: Carabinieri. Uno di loro porta occhiali scuri alla Blues brothers nonostante il buio pesto. Il commando si spacca: due si dirigono dritti verso Stephen ed i suoi amici, gli altri raggiungono il retro della Croma, aprono lo sportello del portabagagli e tirano fuori da un sacco di yuta gli Automatova Khalshnikova Obrazca 47. “Kalash”, sussurra in lingua ashanti Stephen mentre i muscoli del volto si contraggono in una maschera di terrore. Sa che da quella canna di ferro può uscire solo morte e distruzione. Una colata di vuoto assoluto frantuma la quiete. Ora i ragazzi africani non parlano più di Questura, documenti e penne: il panico ancestrale è ovunque. Quattro uomini che sembrano dei Carabinieri si avvicinano con passo marziale. Il tizio con gli occhiali scuri afferra con la mano destra una pistola. Gli altri due puntano i kalash contro i colored. Passa un nanosecondo e l’uomo con le lenti da sole dice loro: “Fermi, Carabinieri”. All’improvviso Stephen, Yeboah e Sunny capiscono. I bianchi non chiederanno il permesso di soggiorno a nessuno. Non sono lì per sfasciare il negozio o per piazzare a qualche negro cocaina sottratta ai depositi del Comando provinciale. No, dai loro occhi traspare altro. Una strana luce. Ora i due armati di kalhasnikov hanno tolto la sicura. Un silenzio tombale. L'uomo al centro stira il braccio, stringe con foga il calcio della 357 Magnum, prende la mira, mette a fuoco il bersaglio e preme il grilletto.... Stephen va in trans e rivede al di là delle palpebre chiuse la sua capanna nella bidonville di Accra, il sorriso della madre vestita con gli abiti da festa: aveva sedici anni era il giorno del suo compleanno e prima o poi sarebbe andato in Canada, a lavorare in un grande albergo, per garantire a tutta la famiglia un futuro migliore.
Ora Stephen urla e si copre il volto con le mani. Attende il fragore dello sparo, il calore del piombo fuso che lacera le carni, ma tutto ciò che sente è solo un singhiozzo sordo di metallo. Tlik tlik tlik, come cicale in un campo di grano a Ferragosto.


L’indice si piega a scatti sul grilletto. Peppe o’ Cecat non crede al suo unico occhio. Tenta e ritenta come un ossesso, ma niente da fare. La Smith & Wesson si è inceppata, e lui si sente un evirato di fronte a Eva Henger in baby doll. La sua amata compagna di malavita lo sta tradendo per salvare la vita a tre neri rinnegati. Bastarda di una cagna. Un martello batte sulle sue tempie. “Mannegg, mannegg”, impreca furioso mentre una goccia di sudore scivola via dalla sua fronte. Stralunato, Peppe si gira verso i suoi scagnozzi. Incredibile: persino i kalash sono out. Peppe quasi sviene mentre Alessandro smanetta sul tasto di sgancio dell’otturatore. Oreste, invece, sfila il caricatore della P38 e lo reinserisce. Poi punta di nuovo la pistola contro gli africani e prova a sparare. Zero, nulla di nulla. Il volto di Peppe inizia a farsi paonazzo. Cilecca, cilecca e sempre cilecca. Dannatissimi residui bellici Made in Urss: il raid sta fallendo miseramente per colpa di quelle ferraglie giunte a Castel di Principe dall'ex Jugoslavia. Peppe già accarezza con la fantasia l’attimo in cui strangolerà con una retina rossa per provoloni Amir l'albanese. Lurido zingaro slavo. Pensieri inquietanti affollarono la sua mente sconvolta: adesso cosa dirà lo Zio? Come reagirà don Luigi Copposerta? O’ Cecat, per la prima volta in vita sua, teme il peggio. Mentre Alessandro ed Oreste arretrano a piccoli passi, gli africani la smettono di piagnucolare invocando i nomi delle loro mogli o delle loro figlie rimaste nella bidonville di Accra, lontane mille miglia da quel battaglione di morte con le pettorine dei Carabinieri. Stephen, però, si accorgere di essere ancora sano e salvo. Avverte il suo affanno, le lacrime che gli rigano le guance, le imprecazioni in dialetto castellese. E’ vivo, è ancora vivo. E allora Stephen si fa coraggio e sbircia tra le mani tremanti con cui sperava di proteggere dalle pallottole dell’Ak 47 almeno il volto. Vede quattro uomini bianchi che armeggiano con pistole e fucili nel tentativo disperato di far partire un colpo. Peppe intercetta il suo sguardo terrorizzato, bestemmia in e schiumando rabbia lancia la 357 Magnum contro Stephen. “T’aggia scannààààà”, urla querulo mentre si scaglia addosso al nero con la bandana. Gli altri scagnozzi, basiti, seguono l’esempio del capo buttandosi nella baruffa, colpendo con i calci dei kalashnikov e delle pistole inceppate quei quattro mustacciuoli in pantaloni. Peppe afferra con le mani la gola di Stephen e stringe con tutta la sua forza. Anche Oresete, Alessandro e Pasquale menano mazzate napoletane. “T’aggià scannaaaa,, mannegg’ i kene, t’aggià scannnaaaaaaaaa”, urla furibondo Peppe. Poi, quando gli occhi di Stephen quasi sgusciano via dalle orbite, un fiotto caldo sulla tempia destra cattura per un attimo la sua attenzione. Stacca una mano dal collo taurino dell’africano, si tampona la fronte e osserva con il suo unico occhio ancora funzionante. La sua mano è sporca di sangue. Poi si gira di scatto e vede Oreste, il moschillo che veste solo


completi griffati Dolce e Gabbana, crollare sulle ginocchia e franare sull’asfalto. La sua nuca è un grumo rosso pulsante, i capelli cotonati un pudding di materia cerebrale. O' Cecat annusa il pericolo come un levriero da caccia e realizza. Dietro di lui c’è qualcuno. E allora decide di liberare Stephen dalla morsa asfissiante e si volta di scatto. Con sommo stupore e sbigottimento vede altri due ragazzi neri armati con mazze da baseball. Saltellano di continuo come orango tanghi. La loro è una sorta di danza tribale e quando Peppe si gira i due indiavolati gridano oscure minacce in un idioma a lui incomprensibile. Uno di loro indica con la mazza di baseball il corpo inerte di Oreste, mentre l’altro invasato sferra una mazzata nel pieno viso di Pasquale. Il rumore del legno che sfonda il setto nasale del Tenente è narcotizzante.
Peppe stenta ancora a credere al suo unico occhio non bendato. Si gira di scatto in tutte le direzioni, in cerca di una via di fuga. Nel frattempo, dalla Domitiana, altri invasati Masai corrono verso di lui. Chi impugna una bottiglia di Peroni rotta, chi una spranga di ferro che assomiglia ad una marmitta. Peppe si sente un animale nella cella di uno zoo. Il boss che prende ordini solo dalla Zio realizza: ormai è quasi circondato. Circa venti diavoli neri lo stanno per braccare. O’ Cecat avverte forse per la prima volta in vita sua il terrore allo stato puro. L’effetto della cocaina è ormai un ricordo in technicolor. Ora, nel suo ipotalamo, trova spazio solo il panico. Neanche il tempo di realizzare la sua disgrazia che una randellata lo colpisce sull’avambraccio. SBAAAAAMMMM. Una smorfia di dolore deforma i connotati, e per un momento perde la percezione dell’arto destro. Ma Peppe è un uomo di azione, un killer del clan dei Castellesi, uno di mezzo la strada e sa che in quel frangente, anche uno come lui, un boss del suo calibro può fare solo una cosa: fuggire come un coniglio. E così, o’ Cecat’ inizia a correre. Ma viene raggiunto alla spalla da un’altra botta. Le carni indolenzite quasi si staccano dalle ossa….SBAAAMMMMM… Peppe fugge a gambe levate, come quando a quattordici anni gettò la sua prima molotov tra le baracche del ghetto Villa Literno. Sembra quasi che da quel giorno non sia cambiato nulla. All’improvviso, mentre un’orda di africani armati lo rincorre, si rende conto che la sua vita è stata solo un'eterna fuga.



Grazie a Luigi Caterino per la consulenza in dialetto “castellese”
A Rosaria Capacchione, per la consulenza balistica
A Marco Giagnotti per le foto e l’autoritratto
A Tatiana Carelli per la fiducia
A Carla D’Alessio per l’editing destrutturante e rigenerativo
A Francesca Scafuto per l’editing di tutta la mia esistenza
A Raffaele Cutillo per il caffè al Crown Plaza mai sorseggiato
Ai compagni di sbronze della Brigata Parthenope Marco Marsullo e Luca De Pasuale
In memoria di Samuel Kwaku, Cristopher Adams, Francis Antwi , Eric Affum Yeboah,, Alex Geemes
che da lassù continuano a sbellicarsi dalle risate ricordando Godpower che si credeva il profeta Isaia

Renato, in the Center Fernandez we trust