Due strisce di polvere bianca sul piano lucido. Roba buona, assai potente. Non come quella che si vende al calar delle tenebre in via dei Diavoli. I nigeriani la mischiano con la lidocaina: ecco perchè i tossici smascellano quando ne sniffano troppa. Peppe, detto “o’ Cecat”, tagliuzza, smista ed allinea la coca in piccole piste parallele, aiutandosi con il santino di San Castrese, osannato patrono di Castel di Principe. Poi china il capo, infila nella narice sinistra una banconota arrotolata da cento euro e via... SSBAAAAAMMM …Una vampata sismica di adrenalina, il cuore che si liquefa nel torace ed evapora mentre il diaframma va in tilt. Peppe si stropiccia con foga la punta del naso. Deglutisce e massaggia con la lingua il palato, scuote e rotea la testa come un pugile colpito da un uppercut. Ancora un altro giro di walzer e...SABAAAAMMM….Ora si crede Annibale in mezzo ai romani, invincibile, possente. Con la punta del mignolo raccoglie i microgranuli di cocaina sparsi su tavolo di rovere massello e poi si strofina le gengive. E’ un leone alato dai muscoli di giaguaro. Afferra la pettorina dei Carabinieri piegata sullo schienale della sedia di plastica e la indossa mentre si osserva nello specchio a muro. “O’ Cecat” si morde le labbra e raddrizza la benda di tela che protegge l’occhio sinistro, retaggio di un intervento in una clinica di Pavia per una grave patologia retinica. Sei ore dopo l’operazione, nottetempo, la fuga. Sono passati otto mesi, ed ora che è di nuovo latitante Peppe ha trovato rifugio in un villino sperduto ad Ischitella. Inforca gli occhiali scuri alla Blues Brothers, infilza giubbotto di volo U.S. Navy in simil-pelle nera. Solleva il materasso con una mano e con l’altra agguanta la sua inseparabile compagna di mala-vita: una Smith & Wesson Magnum 357. Con lei in pugno, la sua volontà di potenza diventa Apocalisse. Ogni volta che il palmo stringe quel manico dentellato, Peppe avverte una placida sensazione di onnipotenza. Ama il luccichio dei bossoli calibro 38 special, il tonfo strozzato degli spari, il piacevole rimbrotto del rinculo. Distrattamente sbircia la foto di sua moglie in una cornice appesa a sinistra dello specchio. Le aveva inviato un pizzino: quella sera non sarebbe tornato a casa e, forse, si sarebbe trattenuto fuori almeno per una settimana. Ora Peppe è pronto e si avvia verso la porta. Nella stanza disadorna, oltre al letto, al tavolo Art Decò ed alla sedia comprata all’Ipercoop, un Pinguino Delonghi arrugginito. Ritagli di articoli di un settimanale che riporta a tutta pagina un’intervista al giudice Catone. La prima pagina del “Corriere dei Latrones” con la foto del colonnello dei Carabinieri Bugo ed un titolo a sette colonne: “O' Cecat ha i minuti contati: lo prenderemo”. Qualche piatto sudicio sul pavimento e pezzi di aragosta spolpata nel cestino. Giuseppe spegne la luce, gira il pomello ed esce. Stasera nessuno, a Castel di Principe, ha il diritto di continuare a vivere.
Inutili invertebrati dalla pelle nera. Puzzano, urlano e praticano arcani riti woo-doo. Peppe li ha sempre odiati. Sin da bambino. Ricorda ogni particolare come se fosse ieri. Estate 1989, ghetto di Villa Literno. Baracche di lamiera in fila indiana, bacinelle blu piene d’acqua putrida, teloni di plastica trasparente straziati dal vento. Tra le mani la sua prima molotov. Un panno da cucina come stoppino. Poi la scintilla dello zippo. Il crepitio di una bottiglia che si infrange. Il fuoco, le urla, l’odore acre di bruciato. Scampoli di un’adolescenza violenta a Castel di Principe, tra bufale e Mercedes Benz. Da quel luglio di 19 anni fa, Peppe ne aveva fatta di strada, tutta di corsa. Ogni contrada del paese lo rispettava. Quando camminava in piazza Villa gli anziani fuori ai circoli, giravano la testa altrove. Tutti temevano il suo sguardo e la sua rabbia. Anche perchè o’ Cecat prendeva ordini da Zio Cicciotto in persona. E l’ultima direttiva era: sparare agli africani. Manichini di nulla mescolato al niente. Lo Zio era stato di poche parole. Colpirne uno per educarne cento. Far capire loro che era giunto il tempo di andare via, di ripercorrere a nuoto il Mediterraneo. Si trattava di un favore per Don Cristofaro Luigi Copposerta. Dopo anni di trattative il Don aveva raggiunto un’intesa con il Comune e la Regione: un accordo di programma per realizzare un maxi resort a sette stelle con annesso campo da golf a 24 buche, piscina olimpionica di acque termali più un porticciolo per l’attracco degli Yatch. Un’oasi di svago e verde artefatto che sarebbe piaciuta tanto agli americani della Nato, dal 1945 clienti fissi di don Copposerta. Ma quei luridi ominidi intralciavano il suo sogno di cemento armato. Troppi spacciatori, troppe prostitute, troppi straccioni a Castel di Principe. Una bella disinfestazione umana, ecco quello che voleva Copposerta, padrino di battesimo del terzogenito dello Zio. Il don aveva già pagato in contanti. Due valige piene di mazzette da cento euro. Peppe le aveva viste con il suo unico occhio malconcio. Così come ora vede una Fiat Marea grigio metallizzata parcheggiata fuori al cancello del suo villino. O’ Cecat, con passo rapido raggiunge la vettura dai vetri oscurati. Apre la maniglia dello sportello anteriore destro e si siede di fianco del conducente. All’interno ci sono tutti i suoi uomini. Li ha scelti lui, uno ad uno. Si fida di loro. Hanno sparato con lo stesso mitragliatore Uzi, si sono divisi pasta di eroina e ballerine brasiliane. Alla sua sinistra, con le mani sul volante, c’è Oreste Portoghese, che sembra un tronista di Uomini e Donne. Veste solo completi griffati Dolce e Gabbana. Fino a qualche anno fa sbarcava il lunario lavorando come custode dei viali privati lungo Corso Lenin. Adesso è un narciso che sboccia alla luce di una lampada abbronzante, una pianta carnivora affamata di soldi. Piccoli difetti di un ragazzo di strada in procinto di diventare un vero camorrista. Seduto sul sedile posteriore c’è Alessandro Birillo, detto “o’ Tenente”. In un’altra vita sarebbe stato un ottimo parà della Folgore, un soldato col coraggio di un mujaiddin ed il sangue freddo di un Marine. Anche Pasquale Murgias era un uomo di azione. Figlio di ricchi allevatori bufalini, amante delle lucciole nigeriane e fervente cattolico. Dopo ogni omicidio Pasquale si faceva sempre il segno della croce. Il boss saluta con un cenno della testa i suoi scagnozzi. I loro volti sono statue di sale. Solo Oreste, che è il più giovane, mastica con furia una big bubble. Ed è proprio a lui che Peppe dedica un lungo sguardo indagatore. Lo scruta, lo invade, lo sviscera. Al di là della benda, si chiede se quel ragazzo dai capelli cotonati e le sopracciglia limate sia in grado di sparare con il kalashnikov. Peppe si domanda se l’indice di Oreste tremerà prima di spingere il grilletto. Quesiti invisibili che barcollano nel suo ipotalamo. Non è il momento di spargere dubbi. Ciak, si gira e basta.
Peppe tira forte col naso, inarca le labbra e disegna nel fragore delle onde radio un aborto di sorriso. “Nu cuntacchid bedd asseje allimmen u tenimm” (“almeno un nero che serve esiste”). Nel retro della Fiat Croma grigio metallizzato, Alessandro e Pasquale non battono ciglio mentre osservano la Domitiana che scorre fluida come un rivolo dei Regi Lagni. La tensione è un cappio ad ogni nervo, e non c’è tempo per esultare. Solo Oreste sghignazza alla battuta del “Cecato”. E’ poco più che un moschillo: Peppe lo sa e torna con la mente al sacco di yuta nascosto sotto la ruota di scorta all’interno del portabagagli. Lì ci sono due kalashnikov da poco importati dalla Serbia, grazie ai buoni uffici di Amir l’albanese. I fucili, tempo fa, erano stati collaudati dalle Tigri di Arkan ed ora avrebbero servito solo un’altra tigre: una belva con i canini di sciabola, il pelo lucido ed una benda all’occhio. Una tigre di Castel di Principe che adesso scruta la strada in cerca della preda. “Ei bbi lok, oiii” (“eccoli, finalmente”). Con un piccolo cenno del capo, Peppe indica tre neri nei pressi di una sottospecie di negozio dall’impronunciabile nome africano distante poco più di cinquanta metri. Oreste afferra l’input al volo, decelera e procede a 20 all’ora. Sono delle iene in agguato, e prima dell’assalto finale studiano la selvaggina, le sue mosse, le sue pulsioni. I colored parlano tra di loro e si sganasciano dalle risate. Il megero al centro della cricca, forse, sta raccontando qualcosa di divertente. Il cantastorie africano indossa una bandana a stelle e strisce come quei rappers grassi e goffi che scimmiottano su Mtv. Per Peppe, quelle palle di lardo nero saltellanti, piene di catene d’oro e di anelli luccicanti, rappresentano una sorta di devolution del genere umano. Credono di essere dei duri, dei gangster. Il suo volto si contorce in un’impercettibile smorfia di disgusto, tira su forte con il naso per un’ultima volta. Serra le labbra con rabbia e ordina: “Iettme!” (“andiamo!”). Una scossa di adrenalina spazza via la nebbia dai cervelli soffritti dalla cocaina. I quattro caval leggeri dell’Apocalisse aggrottano la fronte. L’ordine di morte giunge sibillino ai loro timpani ancora frastornati dal clamore stereofonico che insegue – simile al tuono dopo il lampo - il goal di Zalajeta. Domani mattina sui giornali o al Tg, la strage di San Gennaro verrò descritta come un “dopo”, un dato di fatto, una missione compiuta. Eppure, c’è sempre un “prima” che sfugge al grande pubblico morboso. Ed è quell’istante di lucida follia che O’ Cecat ed i suoi scagnozzi stanno assaporando. E’ il fuoco dell’ultimo barlume di umanità che brucia nei loro sguardi vitrei. Nel chiuso della Fiat Croma con i finestrini oscurati, Peppe, Oreste, Alessandro e Pasquale tastano con le mani le pistole come se fossero degli ex voto. Una 357 magnum, una P38, una Red Scorpion, una Beretta calibro nove. Quattro pappaghene pronte a cantare una dolce polifonia di piombo la cui eco sconvolgerà il mondo.
Ora Stephen urla e si copre il volto con le mani. Attende il fragore dello sparo, il calore del piombo fuso che lacera le carni, ma tutto ciò che sente è solo un singhiozzo sordo di metallo. Tlik tlik tlik, come cicale in un campo di grano a Ferragosto.
completi griffati Dolce e Gabbana, crollare sulle ginocchia e franare sull’asfalto. La sua nuca è un grumo rosso pulsante, i capelli cotonati un pudding di materia cerebrale. O' Cecat annusa il pericolo come un levriero da caccia e realizza. Dietro di lui c’è qualcuno. E allora decide di liberare Stephen dalla morsa asfissiante e si volta di scatto. Con sommo stupore e sbigottimento vede altri due ragazzi neri armati con mazze da baseball. Saltellano di continuo come orango tanghi. La loro è una sorta di danza tribale e quando Peppe si gira i due indiavolati gridano oscure minacce in un idioma a lui incomprensibile. Uno di loro indica con la mazza di baseball il corpo inerte di Oreste, mentre l’altro invasato sferra una mazzata nel pieno viso di Pasquale. Il rumore del legno che sfonda il setto nasale del Tenente è narcotizzante.
Peppe stenta ancora a credere al suo unico occhio non bendato. Si gira di scatto in tutte le direzioni, in cerca di una via di fuga. Nel frattempo, dalla Domitiana, altri invasati Masai corrono verso di lui. Chi impugna una bottiglia di Peroni rotta, chi una spranga di ferro che assomiglia ad una marmitta. Peppe si sente un animale nella cella di uno zoo. Il boss che prende ordini solo dalla Zio realizza: ormai è quasi circondato. Circa venti diavoli neri lo stanno per braccare. O’ Cecat avverte forse per la prima volta in vita sua il terrore allo stato puro. L’effetto della cocaina è ormai un ricordo in technicolor. Ora, nel suo ipotalamo, trova spazio solo il panico. Neanche il tempo di realizzare la sua disgrazia che una randellata lo colpisce sull’avambraccio. SBAAAAAMMMM. Una smorfia di dolore deforma i connotati, e per un momento perde la percezione dell’arto destro. Ma Peppe è un uomo di azione, un killer del clan dei Castellesi, uno di mezzo la strada e sa che in quel frangente, anche uno come lui, un boss del suo calibro può fare solo una cosa: fuggire come un coniglio. E così, o’ Cecat’ inizia a correre. Ma viene raggiunto alla spalla da un’altra botta. Le carni indolenzite quasi si staccano dalle ossa….SBAAAMMMMM… Peppe fugge a gambe levate, come quando a quattordici anni gettò la sua prima molotov tra le baracche del ghetto Villa Literno. Sembra quasi che da quel giorno non sia cambiato nulla. All’improvviso, mentre un’orda di africani armati lo rincorre, si rende conto che la sua vita è stata solo un'eterna fuga.
A Rosaria Capacchione, per la consulenza balistica
A Marco Giagnotti per le foto e l’autoritratto
A Tatiana Carelli per la fiducia
A Carla D’Alessio per l’editing destrutturante e rigenerativo
A Francesca Scafuto per l’editing di tutta la mia esistenza
A Raffaele Cutillo per il caffè al Crown Plaza mai sorseggiato
Ai compagni di sbronze della Brigata Parthenope Marco Marsullo e Luca De Pasuale
In memoria di Samuel Kwaku, Cristopher Adams, Francis Antwi , Eric Affum Yeboah,, Alex Geemes
che da lassù continuano a sbellicarsi dalle risate ricordando Godpower che si credeva il profeta Isaia
Renato, in the Center Fernandez we trust
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